Gioco

Claudio Ajmone

Dalla rivista Psicologia e Scuola
numero 18, Febbraio-Marzo 1984, Giunti Barbèra ed.





È questa una delle parole più diffuse, appresa e utilizzata fin dalla più tenera età. Giocano non solo gli esseri umani ma anche tutti gli animali vertebrati. L’interesse degli studiosi per il gioco è antico, potendo risalire fino a Platone e Aristotele. Dovrebbe dunque essere facile fornirne una definizione. Purtroppo la chiarezza di questo concetto è inversamente proporzionale alla sua frequenza d’uso. Molte teorie sono state formulate negli ultimi cento anni, ma sono sorte anche posizioni antiteoriche che poggiano su solide basi sperimentali. Perché tutto questo? Il termine si riferisce a comportamenti, situazioni-stimolo, motivazioni, scopi, condizioni emozionali troppo numerose e diverse tra loro: è un bell’esempio di concetto non traducibile in termini operazionali. Vediamo come si è evoluto.

Prime formulazioni teoricbe

Le prime teorie sorgono nella seconda metà dell’Ottocento e sono fortemente influenzate dalle idee evoluzionistiche. Benché siano ormai superate, alcune riflessioni sono ancora oggi rintracciabili nelle teorie più accreditate.

A) Gioco come svago

È la riedizione di un’idea già espressa nel Seicento e che Schiller e Lazarus ripropongono, enfatizzandone l’antitesi con le attività finalizzate alla soddisfazione dei bisogni.

B) Gioco come «surplus di energia»

Il filosofo inglese Spencer lo concepì come sfogo di energia eccedente, disponibile nei mammiferi superiori grazie alla loro buona condizione di salute e al maggior tempo libero, essendo in grado di procurarsi molto cibo rapidamente. L’idea era già stata espressa un secolo prima da Schiller, tuttavia vi sono originali riflessioni sulla fisiologia della fatica dei centri nervosi.

C) Gioco come «ricapitolazione»

Teoria coniata dallo psicopedagogista americano Hall. Ispirandosi al pensiero lamarckiano, egli riteneva che il gioco nell’età evolutiva esprimesse le esperienze ancestrali dei nostri antenati tramandate genericamente.

D) Gioco come «esercizio di capacità»

Il filosofo Groos, ispirandosi alle idee darwiniane, intese il gioco come un istinto generalizzato, la cui funzione era quella di attivare istinti più specifici e utili per la sopravvivenza nell’età adulta.

E) Gioco come «atteggiamento dello spirito»

Anch’egli seguace di Darwin, sulla scia di riflessioni fatte dal maestro, Sully considera il riso come elemento distintivo del gioco insieme ad una disposizione d’animo e atteggiamenti giocosi.

Teorie psicologiche

Con il costituirsi della psicologia come scienza autonoma vennero formulate teorie più sofisticare.

1) Teoria psicoanalatica

S. Freud definì il gioco come appagamento fantastico di pulsioni istintuali inconsce, sessuali ed aggressive. In una seconda fase egli prende in considerazione i giochi che riguardano esperienze traumatiche vissute dai bambini. Ritenne che la ripetizione giocosa di tali esperienze servisse ad eliminare l’ansia ad essa associata. Gioco come terapia, dunque.

2) Teoria «etologica»

Gli etologi definiscono come gioco tutti i comportamenti biologicamente inutili o irrilevanti quali l’attività «a vuoto», lo «spostamento», i «movimenti intenzionali», le «attività incomplete nei piccoli». L’accordo tra gli studiosi sulla loro effettiva inutilità è tutt’altro che unanime.

3) Teoria della Gestalt e del campo

I principi che questa scuola ha elaborato e che Koffka ha applicato ai bambini, congiuntamente alle elaborazioni di Lewin, hanno portato alla concezione del gioco come un comportamento strettamente connesso alla modalità percettiva e alla confusione che il bambino fa tra il piano della realtà e quello dei desideri.

4)Teoria di J. Piagett

Il gioco è inteso come pura «assimilazione», che piega gli eventi ai desideri del soggetto integrandoli alle conquiste intellettuali ottenute attraverso il processo di «accomodamento». Anche il gioco con regole sociali rientra nella definizione. Si tratta di attività ripetitive con esclusione di quelle la cui ripetizione ha come scopo la comprensione.

5) Teoria di apprendimento come posizione antiteorica

Qui il discorso è radicalmente capovolto: il gioco non esiste. Esso è un concetto scientificamente inutile, vago e persino dannoso, costituendo una trappola linguistica. Questa posizione è stata riassunta da Schlosberg («The Concept of Play», Psychological Review, 54, 229-31,1947) che fa notare come i noti principi dell’apprendimento possono spiegare ogni tipo di gioco, senza dover prefigurare una classe speciale di comportamento.

Claudio Ajmone