L’etnomedicina e la terapia del simbolo

Pierpaolo Pracca (Antropologo)




 

Quattro volte gridai "Hey-a-a-hey!",

tambureggiando: gridavo allo spirito del mondo, e già

mentre facevo così potevo sentire il potere che saliva in me dai piedi in su,

e capii che sarei stato in grado di fare qualcosa per il bambino malato.

(J.G. Neihardt, Alce Nero Parla)

Cos’è l’Etnomedicina

L’etnomedicina, fin dal suo nascere, ha permesso di comprendere come all’interno di società integrate la salute di un individuo debba essere letta attraverso una complessa griglia interpretativa in cui gli aspetti medico-fisiologici si connettono a quelli antropo-sociali. A questo proposito, in Italia si possono ricordare gli studi di Antonio Scarpa (1980), medico specializzato in patologia esotica che ha contribuito alle ricerche sulle pratiche mediche tradizionali iniziando un’opera paziente di analisi e catalogazione dei diversi tipi di cura conosciuti nei cinque continenti. Citiamo, ad esempio, gli studi di Scarpa sull’effetto placebo (nei suoi aspetti biologici, psicologici e sociali) all’interno dei principali riti di guarigione da lui analizzati.

Una delle caratteristiche più interessanti dell’Etnomedicina, che fonde patrimoni intellettuali solo apparentemente lontani (medicina, antropologia, psicologia, religione) è senza dubbio lo spirito pluridisciplinare, che da sempre permette al ricercatore, di operare in questo campo, all’interno di un modello, nel quale sono assenti quei vincoli mentali e quelle barriere che solitamente in altri ambiti impediscono il dialogo fra realtà paradigmatiche differenti tra loro.

L’aspetto più interessante riguardante gli studi etnomedici concerne l’acquisizione di una idea di fare medicina, che, all’interno delle cosiddette culture tradizionali, implica anche una diversa concezione di ciò che noi siamo soliti definire malattia e cura (Nathan, 1996).

Ma quale può essere l’importanza di una scienza come l’etnomedicina ancora sconosciuta al vasto pubblico e quali risorse può apportare alla nostra medicina? Nella consapevolezza dei limiti antropologici di trasposizioni culturali, a volte oggettivamente rischiose, mi sembra utile il recupero di una visione completa dell’individuo nella sua unità di mente-corpo insieme alla consapevolezza che qualsiasi iter terapeutico non può prescindere da una relazione armonica tra paziente e uomo-medicina.

Probabilmente una medicina ipertecnologica come la nostra sarebbe bene tenesse in considerazione un semplice assunto comune a gran parte dei modelli etnomedici e cioè che il processo di guarigione per l’ammalato ha inizio con la notizia dell’avvicinarsi alla sua capanna da parte del guaritore.

In questo modo potrà nascere una medicina più attenta ai reali bisogni del malato e più consapevole del fatto che, come sostiene Geertz (1962), dal primo vagito all’ultimo respiro ogni individuo è composto di soma, psiche e polis e che quindi egli è contemporaneamente corpo, persona ed essere sociale. Per questo motivo l’etnomedicina guarda a quelle comunità, che hanno conservato intatta la tradizione antica e popolare della cura, attraverso il ricorso a rimedi naturali e alla condivisione dello spazio sociale con il sofferente, tramite riti collettivi in grado di coinvolgere l’intera famiglia e spesso tutta quanta la comunità.

Non bisogna inoltre scordare che all’interno delle cosiddette culture ad interesse etnologico il concetto di polis, oltre alla famiglia e alla comunità, si estende includendo la sfera magico-mitologica coinvolgente, ad esempio, gli spiriti degli antenati (Kakar, 1993) aprendosi così alla dimensione del sacro e del religioso, che spesso è connaturata a quella medica, visto che la guarigione riguarda spesso il ristabilirsi di un equilibrio che è al tempo stesso fisico, sociale e spirituale (Eliade, 1974). Più propriamente, per quanto riguarda gli aspetti terapeutici correlati alle pratiche etnomediche, è noto come tali tecniche siano radicate in una concezione spirituale della malattia piuttosto che in una di tipo microbiologico o organico. In ambito etnomedico, infatti, si riscontrano spesso approcci terapeutici finalizzati a cacciare gli spiriti o le divinità causanti malesseri e sofferenze. In questi casi l’uomo-medicina è protagonista, insieme al malato, di un processo nel quale gli elementi concreti e fisiologici del "male" vengono trascesi e trasferiti su di un piano puramente simbolico, dove subiranno le opportune trasformazioni per mano del terapeuta .

E’ l’irruzione dell’elemento sacro e dei mondi immaginari del paziente e del guaritore che rende l’approccio etnomedico estremamente interessante per noi occidentali, chiamati ad una apertura verso una cultura medica altra, - laddove il termine cultura è da utilizzarsi nel senso di un sistema ordinato di significati e di simboli all’interno del quale gli individui definiscono il loro mondo, esprimono i loro sentimenti e maturano i propri giudizi.

Comprendere questi modelli culturali significa sottrarsi alle insidie di una medicina occidentale, a volte eccessivamente meccanicistica e riduzionistica e riappropriarsi di una visione contestualistica della terapia, nella quale il malato possa essere accolto nella sua interezza di persona, coinvolgendone gli aspetti psicologici, sociali ed ambientali comprendendone in primo luogo la mappa attraverso la quale egli legge la realtà, consci del fatto che proprio negli elementi che compongono quella mappa potremmo scorgere le ragioni del suo ammalarsi e del suo eventuale guarire.

Prende così forma uno dei concetti fondanti l’etnomedicina riguardante l’esistenza di sindromi e patologie legate alla cultura e osservabili solo all’interno di determinati contesti culturali e non altrove.

Per questo motivo chi fa ricerca in questo ambito, per citare alcuni studi recenti, (Rossi, Li Vigni, Zuffi, 1996) si confronta con forme di pensiero, che si sottraggono alla rigida causalità e pensa piuttosto che ogni azione culturalmente definita - sia essa un rito, una danza, una preghiera - all’interno di una determinata realtà consensuale (Tart, 1986) possa ristabilire un legame armonico fra persona e società, all’interno della quale si generano le cause e le terpapie dello stesso mal-essere.

Un rituale di guarigione-

Un interessante rituale di guarigione è quello particato in Nepal presso gli sciamani Tamang. Per questa popolazione la malattia è il risultato dell’alterato equilibrio fra l’uomo e l’ambiente socio-psico-spirituale; l’infrazione di un obbligo rituale, il mancato rispetto nei confronti di una persona o di un oggetto sacro, l’inoltrarsi in un campo o in una foresta senza avere prima chiesto la necessaria autorizzazione agli spiriti o divinità che li abitano, possono provocare lo scatenamento di forze misteriose, che portano l’individuo ad ammalarsi (Romanò, 1997).

La malattia ha quindi sempre cause sovrannaturali. Quindi si richiede l’intervento del Bombo per curare una persona, mentre il rituale prevede una drammatizzazione di eventi la cui carica simbolica agisce terapeuticamente sul malato. Nel corso della cerimonia lo sciamano si avvale dell’ausilio di particolari oggetti magici, suggerisce immagini, colori, proferisce suoni, il cui potere simbolico viene amplificato dal contesto profondamente sacralizzato. In stato di trance, favorita da particolari tecniche meditative, dalla recitazione di mantra e dal suono del tamburo, lo sciamano entra in contatto con i mondi ultaterreni (Halifax, 1990) contrattando con spiriti e demoni una soluzione pacifica del problema, in cambio di offerte e sacrifici. Per mezzo del suo operato, le forze nascoste che, attraverso la malattia insidiano la persona e la comunità vengono evocate e padroneggiate. Lo sciamano è in grado di contattare l’organo o le diverse parti del corpo malate cacciando gli spiriti e i demoni, che ne hanno preso possesso, aiutando il paziente, attraverso la recitazione di mantra, formule magiche, soffiando o strofinando il corpo in corrispondenza della parte malata.

Queste operazioni magico-terapeutiche producono nel paziente ciò che da un punto di vista psicanalitico è possibile definire una dissociazione dal problema o dal male. L’organo malato, attraverso esorcismi, viene simbolicamente trattato e trasferito ad un livello altro di realtà dove subirà le opportune manipolazioni da parte del guaritore. Il male può essere identificato con un demone o con uno spirito, i quali verranno invitati a lasciare la parte del corpo afflitta mediante operazioni complesse di medicina spirituale, per certi versi simili a pratiche terapeutiche della nostra medicina popolare, diffuse ancora oggi nelle nostre campagne, dove per cacciare il male dall’organo si utilizzano preghiere, strofinamenti, musiche, rituali aventi la finalità di manipolare simbolicamente il male e di sconfiggerlo. Un tipico esempio di manipolazione simbolica della malattia si ritrova tra i guaritori popolari in gran parte d’Italia. In molte nostre campagne il fuoco di S. Antonio viene segnato con preghiere e con lo strofinamento della parte del corpo colpita con una spazzola, o con una moneta antica.

Il simbolo come terapia-

L’intervento terapeutico del guaritore, come si evince dall’esperienza sopradescritta, è fondato su una pratica di tipo magico-religiosa, che nei soggetti aderenti a quella particolare realtà socio-culturale è in grado di sortire un effetto rassicurante.

Il terapeuta in questo contesto assurge al ruolo di catalizzatore delle preoccupazioni del malato, consentendogli di alleggerire il peso delle proprie ansie. E’ senza dubbio il rapporto di fiducia che si crea tra guaritore e paziente ciò che permette al primo di essere efficace nella sua azione di aiuto.

L’intervento terapeutico solitamente ruota attorno a tre elementi indispensabili quali il guaritore, il paziente e la comunità del villaggio. Questi tre elementi, come ho già detto, condividono lo stesso sistema di credenze ed hanno strutturato, in maniera consapevole ed inconscia, lo stesso sistema simbolico di interpretazione della realtà.

Il rituale di guarigione appare estremamente ricco di rappresentazioni simboliche e metaforiche, nelle quali il malato e il paziente entrano reciprocamente in uno stato di trance ed iniziano a comunicare attraverso il linguaggio dell’inconscio.

Il guaritore, entrato a sua volta in uno stato alterato di coscienza, individua le connotazioni più significative della malattia, delle emozioni vissute dal paziente, dalle relazioni che legano il soggetto alla propria famiglia e all’intero gruppo sociale, interpretandole attraverso una prospettiva sacra e religiosa.

Per dirla con le parole della psicanalisi, il guaritore parlando il linguaggio dell’inconscio, che avviene per lo più attraverso la comunicazione simbolico-metaforica, è in grado di sciogliere ed elaborare, nel paziente, quei conflitti e quei disagi che ne determinano lo stato di mal-essere.

L’aspetto di estremo interesse è l’efficacia simbolica dell’uomo-medicina, in quanto l’azione terapeutica delle sue pratiche magiche, come fa notare Levi Strauss (1966), attuate mediante rappresentazioni simboliche, è caratterizzata da una manipolazione psicologica dell’organo malato. Analogamente all’approccio psicananalitico dove l’analista parla al suo paziente attraverso l’uso di metafore verbali, il cui contenuto simbolico può riordinare un disequilibrio psicosomatico, il guaritore è in grado di modificare delle funzioni organiche mediante delle rappresentazioni corporee, musicali, olfattive, fondate su un uso estremamente raffinato della sensorialità. Il terapeuta fornisce al malato un linguaggio attraverso il quale è possibile esprimere certi stati non formulati e non formulabili. In questo modo l’intervento terapeutico consente al paziente un deflusso di stati emotivi, che rimasti a lungo inespressi, hanno trovato per via simbolica, uno sfogo nella malattia.

Conclusioni

Si è in presenza di un dispositivo culturale, sofisticato prodotto di ingegneria sociale, come lo definisce Coppo (1996), il cui scopo è insieme la guarigione del paziente e la sua reintegrazione nel sistema comunitario d’appartenenza. Tale dispositivo reintegra l’individuo potenzialmente deviante nella comunità. La crisi ritualizzata di possessione origina ordine ed insieme "rianima" la persona ponendola a diretto contatto con le sue parti inconsce, ripristinando quell’armonia interna (psichica) ed esterna (sociale) precedente la malattia.

Il rituale di guarigione agisce come una leva terapeutica, dando così modo al paziente di descrivere simbolicamente il proprio conflitto e di ottenere in tal modo una abreazione nei confronti delle sue violente emozioni riducendone l’intensità degli effetti. L’analogia con i processi psicoterapeutici e psicanalitici è evidente e viene ancor più evidenziata dall’abilità manipolatoria di molti guaritori presi in esame, i quali spesso ricalcano (con questo termine si intende l’abilità nell’assumere gli stessi atteggiamenti dell’interlocutore per migliorare il rapporto di fiducia e quindi per stabilire un rapporto ottimale funzionale al buon esito della terapia) ogni aspetto del paziente, tenendo in considerazione l’evoluzione della crisi, l’efficacia della comunicazione, che sarà continuamente adeguata a quella del malato. L’aspetto più interessante di questi rituali terapeutici è il fatto che, se il guaritore è particolarmente abile, riuscirà ad aiutare il paziente coadiuvandolo nella esplicitazione di quei bisogni, che in forma implicita si manifestano attraverso la malattia.

In ogni cultura e paese del mondo vi sono luoghi nei quali vengono attuate strategie terapeutiche, capaci di leggere e dare senso a ciò che ad una analisi superficiale potrebbe non averne, o apparire addirittura minaccioso per i nostri paradigmi scientifici. Personalmente ritengo sia invece vitale confrontarci con mentalità e modelli medici che vedono nella relazione paziente/guaritore l’aspetto più importante del processo terpaeutico finalizzato in primo luogo a far sì che la persona possa ritrovarsi e ritrovare un posto riconosciuto all’interno del suo gruppo sociale.

Note Bibliofrafiche

Coppo P., (1996), Etnopsichiatria, Il Saggiatore, Milano.

Eliade M., (1974), Lo sciamanesimo e le tecniche dell’estasi, Ed. Mediterranee, Roma.

Geertz C., (1962), The Growth of culture and the evolution of mind, in Theories of the mind, p. 724, Glencoe.

Halifax J. (1990), Lo sciamano: il maestro dell’estasi, Ed. Red, Como.

Levì Strauss C., (1966) Antropologia strutturale, Il Saggiatore, Milano.

Li Vigni I., Rossi P.A. , Zuffi S., (1995), Aver cura dell’uomo, Erga, Genova.

Nathan T., Principi di Etnopsicanalisi Bollati Boringhieri, Torino.

Kakar S., (1993), Sciamani, mistici e dottori, Pratiche Edizioni, Parma.

Romanò M., (1997) Aspetti simbolici dell’intervento terapeutico nello sciamanesimo nepalese in Altrove - Gennaio 97 p.69, Torino.

Scarpa A., (1980) Etnomedicina, Lucisano, Milano.

Tart. C., (1975) States of consciusness, E.P. Dutton & Co New York.