I disturbi di personalità: un'analisi
critica dei gruppi diagnostici.


Davide Dèttore
Istituto Miller, Via Cipro, 4/4, 16129 Genova


Dalla rivista "Psicologia Cognitiva e Comportamentale", vol. 2, n°3, 1999




Riassunto

Sebbene le classificazioni del DSM si presentino come un sistema ateorico, pure rilevabile come le distinzioni da esso proposte per i disturbi di personalità derivino da quattro distinte elaborazioni teoriche:
1) il modello dinamico;
2) il modello dei tratti;
3) il modello biologico;
4) il modello sociologico.
In questo contributo saranno considerati i problemi dovuti all'eterogeneità diagnostica, ai criteri di inclusione ed esclusione, alla possibile organizzazione gerarchica delle categorie. Data la frequente compresenza di più di un disturbo nello stesso soggetto e anche del fatto che essi accompagnano molto spesso disturbi tipici dell'Asse I (per esempio la depressione e l'abuso di sostanze psicoattive), verrà valutata l'utilità di tali categorie rispetto a un approccio terapeutico diagnosi-specifico. Si discuterà, infine, l'uso dell'approccio dimensionale, fondato sull'osservazione clinica, in grado di dare qualche indicazione circa la progettazione dell'intervento terapeutico.

Parole chiave: disturbi di personalità, modelli teorici, comorbidità, classificazione dimensionale.



Summary :

Though the DSM classifications are offered as an atheoretical system, yet it is clear that the proposed diagnostic categories for personality disorders derive from four theoretical perspectives: 1) the dynamic model; 2) the traits model; 3) the biological model; and 4) the sociological model. In this paper we consider the heterogeneity of such a theoretical origin, the inclusion and exclusion criteria for the different diagnostic categories and the possibility of their hierarchical organization. Then, since the frequent comorbidity of several disorders in the same subject and the accompanying presence of Axis I disorders (such as depression and psychoactive substance abuse), we'll try to evaluate the usefullness of such categories in relation to a diagnosis-specific therapeutical approach. Finally, we'll discuss the possibile use of a dimensional approach to the Axis II categories, founded upon the clinical observation, and able to give some direction about the implementation of the therapeutical treatment.

Key words: personality disorders, theoretical models, comorbidity, dimensional classification.



Introduzione

Senza dubbio, ancor oggi, l'inquadramento diagnostico dei disturbi di personalità offre notevoli difficoltà, tanto che rimane ancora valida l'osservazione di Prins (1988), secondo cui tale gruppo nosologico rappresenta il tallone d'Achille della psichiatria. Sebbene le classificazioni proposte dal DSM si presentino come un sistema ateorico, pure è possibile rilevare che le distinzioni da esso proposte per i disturbi di personalità derivano da quattro distinte impostazioni teoriche sia per quanto riguarda le basi della personalità sia rispetto ai criteri nosologici specifici. Li riassumiamo qui brevemente, ispirandoci al lavoro di Gunderson (1992).

Il modello dinamico.

Esso si basa sul seguente presupposto:
i tipi di personalità derivano dalla psicologia interna organizzatrice delle persone; queste psicologie, sebbene potenzialmente innescate da fattori genetici e costituzionali, divengono organizzate, consolidate e cristallizzate in modo non adattivo quale risultato di tentativi di soluzione di conflitto di fronte alle esperienze di vita. Questo modello è molto importante nel DSM e ha dato origine al numero più elevato di concezioni di disturbi di personalità, come viene riassunto brevemente nel seguente specchietto:

Disturbo di personalità Classica idea freudiana Nuova interpretazione in
termini di psicologia dell'Io
Dipendente Fase orale Deprivazione genitoriale
Ossessivo-compulsivo Fase anale Lotta per il controllo
Isterico (Istrionico) Fase fallica Seduzione e competizione genitoriale
Borderline * Attaccamento traumaticamente insicuro
Narcisistico * Attaccamento gravemente poco empatico


Questo modello è il preferito da parte degli psicoterapeuti, ma è poco scientifico perchè inferenziale e senza verifiche empiriche. E' però vivace e fornisce delle spiegazioni.

Il modello dei tratti

è ispirato dal desiderio di essere esente da preconcetti teorici e di essere comprensivo (incorporare cioè tutti i tipi di personalità). Queste tipologie sono basate sulla teoria secondo cui i comportamenti interpersonali osservabili sarebbero il nucleo, i materiali definitori, su cui deve poggiare la classificazione. L'unica categoria del DSM che deve la sua introduzione a questo modello è il tipo Evitante di personalità, che si ispira al modello di Milion (1969; 1981; 1987) che cerca di inserire i vari quadri psicopatologici di personalità all'interno di una tipologia che considera due dimensioni continue ortogonali fra loro, quello dell'impassibilità-espressività e quello dell'autonomia-ffivischiamento, all'interno dei quali i vari tipi di personalità costituirebbero degli stati intermedi.
Il tipo Evitante, introdotto originariamente nel DSM-III (1980), si doveva distinguere dal tipo Schizoide, che era distaccato passivo e non alla ricerca degli altri perché non interessato a loro, mentre l'Evitante sarebbe stato un distaccato attivo, che si oppone o è timoroso di un attaccamento che pur desidera; quindi l'uno sarebbe stato più tendente verso il polo dell'autonornia e l'altro verso quello dell'invischiamento. In realtà poi l'indagine clinica ha dimostrato che questa suddivisione in base a tali categorie è priva di fondamento in quanto, come risulta da osservazioni derivate dalla pratica clinica che permette una maggiore consuetudine coi paziente e quindi una più approfondita sua conoscenza, lo Schizoide risulta invece desiderare attaccamento e accettazione da parte degli altri.
Di conseguenza nel DSM-III-R (1987) il Disturbo Evitante è stato conservato ma è venuto a corrispondere a un "carattere fobico sociale"; tale categoria, anche sotto questo aspetto, è stata molto criticata ed è senza dubbio quella che presenta maggiori pericoli di sovrapposizione sia con disturbi dell'Asse 1 (Fobia Sociale, soprattutto di Tipo generalizzato, e Disturbo da Attacchi di Panico con Agorafobia), sia con altri dell'Asse II (Disturbo di Personalità Dipendente, Schizoide, Schizotipico e, per taluni aspetti, anche Paranoide).
Questo modello deriva da analisi fattoriali di popolazioni non cliniche ed è il preferito dalla psicologia accademica. Il difetto maggiore è che tale analisi manca di capacità di produrre elementi post dittori di eziologia e predittori del corso, in quanto non specifica i sistemi di rinforzo o gli stimoli sociali e ambientali rilevanti nello sviluppo della personalità.
Sia nel DSM-III-R sia nel DSM-IV tale modello non è rimasto alla base di alcuna categoria, sebbene vi siano stati, come si è detto, alcuni tentativi d'interpretazione di tutti i tipi di personalità all'interno di una classificazione dimensionale per tratti e tale approccio abbia tuttora una notevole importanza per le sue caratteristiche di scientificità.

Il modello biologico

Vede le categorie di personalità come organizzate intorno a fattori neonatali e biogenetici, cioè quei substrati precoci e su base fisica con cui si nasce (cfr. Ippocrate e la teoria dei quattro umori). Questo modello chiaramente ha dato origine al Disturbo Schizotipico (oltre agli altri disturbi del cosiddetto "cluster della schizofrenia'% che in genere viene considerato una variante genetica della schizofrenia stessa appunto (Gunderson et al., 1983; KendIer et al., 1985; Siever et al., 1990a).
A tale inquadramento si rifà anche il Disturbo Ciclotimico, che però fin dal DSM-III è stato attribuito all'Asse I, come sottotipo dei disturbi dell'umore, e anche il Disturbo di Personalità Depressivo, che, più volte proposto come da inserire fra i disturbi di personalità riconosciuti, nel DSM-IV è stato introdotto come categoria dubbia fra quelle che richiedono ulteriore studio. Quest'ultimo cosiddetto "tipus melanchoilicus', (corrispondente al bilìoso di Ippocrate) sembra mostrare una responsività agli antidepressivi accoppiati a interventi coniportamentali di training sociale ma non all'uno o all'altro trattamento da solo (Akiskal et al., 1980; Rosenthal et al., 1981). Anche il Disturbo Antisociale, pur nato all'interno di una, trama teorica ben diversa, come vedremo, sembra avere un pesante contributo genetico Oltre a quelli riguardanti i disturbi di personalità sopra evidenziati, numerosi sono stati gli studi miranti a trovare dei markers biologici specifici per gli altri tipi di disturbo; in particolare si sono cercati i correlati fisiologici associati ai tre clusters in cui ancora nel DSM-IV sono divisi i vari disturbi di personalità. Tali clusters, benché basati, come sottolinea lo stesso manuale, su somiglianze descrittive, pure sottendono la convinzione, più o meno espressa, di una base comune ai disturbi appartenenti allo stesso cluster. Tale base comune, secondo gli assertori del modello biologico, potrebbe consistere in uno specifico substrato fisiologico che si esprime in alcuni marcatori obiettivamente evidenziabili. Siever et al. (1995) hanno presentato le conoscenze attuali rispetto ai markers di ogni cluster; queste vengono illustrate schematicamente nel riquadro seguente.

Cluster (DSM-IV) Markers
Cluster A (Odd-eccentric cluster):
paranoide
schizoide
schizotipico.

- Disfunzione nei movimenti oculari nell'inseguimento di un bersaglio mobile.
- Deficit in compiti che richiedono attenzione continuata.
- Scadimento nella prestazione in test visivi di mascheramento retroattivo.
- Ridotta ampiezza e incremento della latenza nei potenziali evocati.
- Alterazioni nella reazione di orientamento rilevata dalla risposta elettrodermica.
- Aumento del volume ventricolare rilevato alla TAC.
- Caduta della prestazione ai test neuropsicologici prefrontali e frontali.
- Diminuzione dei tassi della monoaminossidasi (anche plasmatica)
- Aumento dell'acido omovanillico (metabolita della dopamina).
Questi ultimi due markers possono essere interpretati come indicatori del fatto che un aumento dell'attività dopaminergica sia associato ai disturbi del cluster A (in particolare a quello schizotipico).

Clauster (DSM IV) Markers
Cluster B (Dramatic-emotional cluster):
antisociale
borderli-ne
istrionico
narci-sistico.

- Ai test neuropsicologici difficoltà nel distinguere aspetti visivi essenziali da quelli irrilevanti e nel rievocare materiale complesso da poco appreso.
- Presenza di'soft signs neurologici'.
- Anomali moduli EEG.
- Ai potenziali evocati, nel disturbo borderline vengono rilevate latenze maggiori e minori ampiezze. Anche nel disturbo antisociale essi sono alterati, sebbene in modo diverso.
- Diminuzione nella latenza e aumento della densità degli episodi REM del sonno.
- Alla risposta elettrodermica nel disturbo antisociale vi è una diminuita anticipazione di uno stimolo aversivo.
- Sistema di neurotrasmissione colinergico: possibile iperreattività dei recettori colinergici che potrebbe essere alla base dell'instabilità affettiva (in particolare del disturbo borderline).
- Sistema di neurotrasmissione noradrenergico: possibile iperattività adrenergica, eventualmente legata all'irritabilità presente nei soggetti con disturbi di tale cluster. - Sistema di neurotrasmissione serotonergico: ipoattività, evidenziata sia dalla diminuzione della serotonina cerebrale, dei suoi recettori piastrinici e dei livelli del suo principale metabolita, l'acido 5-idrossindolacetico. Tale ipoattività, col conseguente calo della funzione inibitoria in rapporto all'aggressione caratteristica di questo sistema di neurotrasmissione, potrebbe essere all'origine dell'impulsività e del comportamento aggressivo e disinibito proprio dei disturbi di tale cluster.
- Sistema degli oppiati endogeni: possibile aumento dei livelli di beta-endorfine, forse legato ai comportamenti autolesivi tipici di alcuni disturbi di tale cluster.

Cluster C (Anxious-fearful cluster):
evitante
dipendente
ossessivo-compulsivo.

- Sistema di neurotrasmissione noradrenergico : possibile iperattività.
- Sistema di neurotrasmissione dopaminergico: possibile ipoattività.
- Sistema di neurotrasmissione serotonergico: possibile ipoattività .
- Sistema GABAergico: possibile ipoattività.



Tali dati sono rilevanti e offrono utili prospettive terapeutiche ma occorre andare cauti: gli aspetti genetici spiegano solo il 50% della varianza nella personalità normale (Rushton et al., 1986; Tellegen et al., 1988); inoltre i temperamenti biogeneticamente identificabilli possono portare a esiti sia male - sia bene - adattativi, per cui la variante maladattiva deve comportare necessariamente spiegazioni di tipo ambientale. Infine possono essere sottolineati due ultimi aspetti che ulteriormente invitano a grande prudenza nella lettura di queste informazioni.
Innanzitutto gli studi in materia sono ancora limitati: infatti i markers sopra riassunti derivano in massima parte da indagini effettuate sul tipo di disturbo più rilevante e/o studiato di ogni cluster, e precisamente il disturbo schizotipico per il cluster A, il disturbo borderline e quello antisociale per il cluster B, e il disturbo evitante e quello dipendente per il cluster C. Questo fatto, naturalmente, limita la generalizzabilità dei dati, in quanto l'estrapolazione agli altri disturbi si baserebbe solamente su affinità descrittive.
In secondo luogo alcuni markers contraddistinguono non esclusivamente i disturbi appartenenti a un determinato cluster, limitandone la specificità. Per esempio, le alterazioni dei potenziali evocati che si riscontranonel disturbo schizotipico sono praticamente sovrapponibili a quelle che sono state evidenziate nel disturbo borderline, che appartiene a tutt'altro cluster (Kutcher et al., 1987).

Il modello sociologico

Secondo tale prospettiva la personalità è modellata dalle circostante sociali e tipi specifici divengono diagnosticabili come patologici perché hanno effetti socialmente dannosi: la "normalità" viene definita come l'assenza di un "costo" rispetto al proprio sistema sociale.
Da questo modello sono derivati:
- Disturbo Antisociale: che si basa soprattutto, nella sua definizione, sul lavoro di Robins (1966), il quale defini questa personalità "sociopatica" incentrandola su comportamenti socialmente proscritti (criminalità).
- Disturbo Passivo-Aggressivo: nato all'intemo della psichiatria militare statunitense, fu derivato dalle risposte socialmente indesiderabili date da alcuni soldati inseriti in un sistema altamente strutturato e autoritario e venne considerato un'utile e comune diagnosi per quanti contravvenivano all'interno dell'esercito. Questo disturbo, presente fin dal DSM-I (1952), invece nel DSMAV è stato declassato alla categoria di disturbi che richiedono ulteriore studio ed è quindi stato eliminato dalla classificazione ufficialmente accettata.
Il peso rilevante di fattori sociologici e politici nei criteri utilizzati è anche individuabile nell'interessante storia della proposta, fatta da terapeuti di ambito psicoanalitico, dell'inclusione nella classificazione del Disturbo Masochistico di personalità. Tale proposta incontrò dapprima un'accesa opposizione soprattutto dalla psichiatria femminista in quanto tale tipo s'identificava eccessivamente con il comportamento sottomesso delle donne e veniva quindi considerato di carattere misogino, per cui si sostenne che tale categoria avrebbe potuto avere dei biases legati al sesso.
La denominazione venne quindi mutata in quella più neutra di Disturbo di Personalità Auto-frustrante e fu accompagnata dalla proposta del Tipo Sadico di Personalità che avrebbe costituito il contraltare maschile del precedente. Tali categorie sono entrate nel DSM-III-R non nella classificazione ufficiale ma in quella che necessita di ulteriore studio. Nel DSM-IV sono state del tutto eliminate, anche dal novero di quelle che necessitano di ulteriore studio.
Ecco un esempio di come fattori sociologici siano in grado di creare categorie che forse sono inutili perché possono essere comprese in altre, per esempio il Tipo Auto-frustrante nel Tipo Depresso e il Tipo Sadico nel Tipo Antisociale o Narcisistico. Tale modello possiede il vantaggio di un'evidente significatività sociale e di una chiara identificabilità, ma confonde la psicopatologia con la desiderabilità sociale e quindi si presta a preconcetti socio-culturali e a un possibile cattivo uso politico. Inoltre è troppo dipendente dal contesto.

I criteri di inclusione/esclusione

è ovvio che a seconda del modello dominante in un dato periodo storico (o nel gruppo di studio che elabora le varie edizioni del DSM) determinati criteri acquisiscono maggiore o minore centralità. Per esempio, nel caso del disturbo schizotipico di personalità, chi segue il modello biologico, che pone maggiore enfasi e deriva conferme empiriche dai dati che indicano un'associazione con la schizofrenia (storia familiare e markers biologici), cercherà validatori per la scelta dei criteri diagnostici in grado di massimizzare il peso di precedenti familiari, mentre chi non è così biologicamente orientato cercherà invece criteri che siano, per esempio, in grado di differenziare meglio la personalità schizotipica da disturbi appartenenti alla stessa area o cluster, come il Disturbo Borderline.
Ma, come sottolinea giustamente Kendler (1990), tale scelta è "essenzialmente un giudizio di valore", non scientifico. Il fatto che l'inquadramento, diagnostico dei disturbi di personalità sia così eterogeneo nelle sue basi teoriche costituisce già un fondo di debolezza dell'inquadramento stesso. Ma esistono altri problemi legati ai criteri di inclusione-esclusione. Infatti i criteri con cui una proposta di nuova categoria nosologica viene esclusa o inclusa nella classificazione non sono del tutto chiari e soprattutto non vengono sempre applicati allo stesso modo. BIashfield et al. (1990) hanno avanzato quella che forse è la proposta più rigorosa e completa di criteri di esclusione e di inclusione.

I criteri per l'esclusione sono i seguenti:

1) inadeguata letteratura;
2) una frequenza estremamente bassa;
3) la dimostrazione di biases diagnostici.

Orbene, il Disturbo Passivo-Aggressivo è carente quanto a letteratura e infatti è stato tolto dal DSM-IV. Però, il Disturbo Schizoide è estremamente infrequente (circa l'1% di tutti i disturbi di personalità) e il Disturbo Istrionico presenta dei sicuri biases legati al sesso (in quanto in ambito clinico viene diagnosticato più sovente nel sesso femminile, quando invece in studi con valutazioni strutturate si ottengono tassi eguali in maschi e femmine), eppure entrambi sono stati mantenuti nel DSM-IV. Quanto ai criteri di inclusione, sono stati così definiti:

1) adeguata letteratura;
2) criteri diagnostici specifici;
3) accettabile attendibilità interclinica;
4) prove a favore che i criteri formino una sindrome;
5) differenziazione da altre categorie.

Pure, il Disturbo Depressivo, che tuttavia non è stato incluso del tutto nel DSM-IV come si è visto, sembra possedere maggiori prove cliniche in favore, più estesa letteratura e perfino più numerosi sostegni empirici di molte altre categorie accettate. Vedremo più oltre come altri disturbi manchino di una sufficiente capacità di diffenziazione da altre categorie e non sempre abbiano criteri diagnostici specifici.

Le difficoltà di un modello categorico-descrittivo

Oltre a tali problematiche teoriche e metodologiche, il modello categorico-descrittivo del DSM comporta notevoli difficoltà pratiche, che qui passiamo brevemente in rassegna.

Indice di comorbidità

I disturbi di personalità hanno un alto indice di comorbilità con altri disturbi sia dell'Asse I che dell'Asse II. Essi si trovano infatti spesso in diagnosi multipla con depressione e abuso di sostanze psicoattive (Asse I), dove addirittura peggiorano la prognosi (Duggan et al., 1990; Stone, 1990), anche se il disturbo sull'Asse I ha di solito la precedenza nel trattamento. Ad essi si possono spesso accompagnare altri disturbi dell'Asse I, come quelli alimentari, ossessivo-compulsivi, agorafobici, di panico, ecc. Inoltre è ormai stato rilevato da diversi autori (per es. Morey, 1988; Blashfield e Breen, 1989) che quanti soddisfano i criteri per un qualsiasi disturbo di personalità di solito presentano anche diagnosi multiple sull'Asse II; per esempio il 60% dei borderline rientra nei criteri di altri disturbi di personalità (Clarkin et al., 1983). Inoltre se valutati in modo sistematico, i pazienti raggiungono le soglie diagnostiche del DSM-III-R per determinati disturbi secondo tassi di prevalenza del tutto irrealistici: per esempio, il 20% dei campioni clinici può soddisfare i criteri per il tipo istrionico (Pfohl et al., 1991) e il 57% quelli del tipo schizotipico (Widiger et al., 1986), laddove nella pratica clinica queste diagnosi sono invece molto rare. E' evidente che in realtà i clinici non fanno spesso diagnosi multiple e che usano invece dei criteri di tipo gerarchico, dando la precedenza nella diagnosi al tipo di disturbo di personalità che è più tipico e rappresentativo all'interno del quadro presentato dal paziente e che meglio orienta il loro progetto di trattamento. Proprio a questo proposito Gunderson (1988) ha proposto l'adozione di un sistema gerarchizzato che cerca di attribuire un criterio di priorità a quelle diagnosi che sono meglio validate, presentano una compromissione funzionale maggiore o hanno una maggiore urgenza nella progettazione del trattamento (cfr. Figura 1). Per tali ragioni il Disturbo Schizotipico, Paranoide, Borderline e Antisociale costituiscono senza dubbio le diagnosi clinicamente dominanti, e prioritarie, anche in presenza di diagnosi multiple. Inoltre tale modello evidenzia bene, come verrà ripreso più oltre, la continuità che esiste fra disturbi dell'Asse I (schizofrenia, depressione) e quelli dell'Asse II.

Continuità/discontinuità dei disturbi dell'Asse I e dell'Asse II

L'interazione fra alcuni disturbi dell'Asse I e altri dell'Asse II , come per esempio fra la schizofrenia e la personalità schizotipica (si veda più sopra per i riferimenti bibliografici) e fra queste due e la personalità paranoide (Kendler e Gruenberg, 1982; Kendler et al., 1985; Siever et al., 1990b), mostrano che piuttosto di una netta separazione sarebbe meglio parlare di una continuità fra i due poli, il che pone in una luce senza dubbio meno dicotomica la distinzione fra i due Assi fatta dal DSM.

Individuazione di campioni 'puri"

Vi è quindi, come terza osservazione, la difficoltà notevole, negli studi clinici, di ottenere una coorte "pura", un insieme cioè di soggetti omogenei che possono essere considerati sicuramente come caratterizzati da un dato tipo di disturbo. Questo dato pone il problema della classificazione monotetica (per la diagnosi viene dato uno o più criteri che sono per essa necessari e sufficienti) o politetica (a tutti i criteri viene dato un eguale peso e per potere fare la diagnosi occorre raggiungere e quindi soddisfare un loro numero-soglia). Sebbene un approccio di tipo politetico sia in accordo con un modello descrittivo della personalità intesa come un insieme di tratti che più probabilmente sono compresenti fino a formare una sindrome, pure ciò senza dubbio aumenta l'eterogeneità dei campioni raccolti pur soddisfacendo ai vari criteri; per esempio Clarkin et al. (1983) hanno calcolato che esistono 93 modi per soddisfare i criteri del Disturbo Borderline. Ciò ha indotto i clinici ancora una volta a scegliere nella pratica i criteri secondo una gerarchia, per cui vi sono pochi criteri che vengono considerati "prototipici" di un tipo di personalità e gli altri vengono trascurati o ritenuti solo secondari. Questa tendenza, che può essere idiosincrasica di ciascun clinico, va contro alle giuste mete di sistematizzazione e di universalizzazione delle classificazioni diagnostiche che stanno alla base delle varie edizioni del DSM.

Il problema della diagnosi-specificítá del trattamento

Infine, come quarto e più importante punto, notiamo che tale classificazione ha scarsa utilità da un punto di vista di approccio terapeutico diagnosi-specifico. Infatti, soprattutto dal pu todìvista psicoterapeutico, più che la diagnosi ha importanza il modello esplicativo eziologia ela borato dal singolo terapeuta.



Figura 1.: I livelli di priorità dei disturbi, secondo Gunderson (1988).



Questo fatto è evidenziato chiaramente, per quanto riguarda l'ambito della terapia cognitiva che qui ci interessa particolarmente, anche nel pur ottimo volume di Beck e Freeman (1~ in cui, malgrado i tentativi di mantenere la trattazione, sia per quanto riguarda le cause e il trattamento, differenziate in base alle categorie del DSM-III-R, pure è evidente che l'inquadramento nosologico del DSM non è sempre correlato con precise cause nosologiche di tipo cognitivo. Infatti, lo stesso schema cognitivo (per esempio di inadeguatezza) si trova alla base di vari disturbi e si diversifica solo il modo con cui l'individuo affronta l'emozione che ne nasce. La convinzione di essere debole e vulnerabile e che il mondo sia pericoloso e malvagio si ritrova nel Disturbo Paranoide, Borderline, Schizotipico e Dipendente. Addirittura in nove disturbi di personalità su 11 le concettualizzazioni cognitive individuano come convinzione centrale una fondamentale fragilità dell'identità di sé; questa poi fa sì che in ciascun tipo il soggetto ricorra a determinate strategie che lo differenziano dagli altri e lo rendono quindi inquadrabile in questo o quel disturbo di personalità. Una situazione molto simile è presente anche nell'interessante volume di Perris (1994), in cui schemi cognitivi molto simili sono associati a diversi disturbi di personalità. Nell'ottica del cognitivismo costruttivista italiano, la situazione appare solo in parte diversa nell'originale lavoro di Lorenzini e Sassaroli (1995), che, cercando di offrire un'ipotesi eziopatogenetica dei disturbi di personalità e definendo la personalità stessa come "quanto c'è di costante e caratteristico nel modo proprio del soggetto di costruire la realtà", hanno concettualizzato uno strettissimo legame (per non dire una coincidenza tout couri) fra stili cognitivi e tipi di personalità, basandosi sullo studio di un gruppo di pazienti. Tali stili cognitivi deriverebbero inoltre daiparticolari moduli di attaccamento sviluppatisi in epoca evolutiva precoce; in tal modo si verrebbero a produrre le seguenti corrispondenze fra legame d'attaccamento, stile cognitivo e disturbi di personalità, così come sono inquadrati dal DSM-IV:


Legame di attaccamento Stile cognitivo Disturbo di personalità (DSM-IV)
Sicuro

Ricerca attiva: il sistema cognitivo cerca di ampliare i propri confini e quindi non esita a mettere alla prova della falsificazione le proprie ipotesi, accettando le invalidazioni.

Assente
Insicuro-evitante

Immunizzazione: il sistema cognitivo non tollera invalidazioni e quindi cerca di minimizzarle o addirittura annullarle, rendendosi impermeabile a esse.

Odd-eccentric cluster: paranoide, schizoide, schizo-tipico.
Insicuro-resistente

Evitamento: il sistema cognitivo tende a risparmiarsi invalidazioni, restringendo il proprio campo di azione e limitandosi ad ambiti operativi noti, sicuri e limitati.

Anxious-fearful cluster: evitante, dipendente, osses-sivo-compulsivo.
Disorganizzato

Ostilità: il sistema cognitivo reagisce alle eventuali invalidazioni semplicemente cercando di imporre con la forza il proprio punto di vista, considerando nemico chi gli si oppone.

Dramatic-emotional cluster: antisociale, borderline, istri-onico, narcisistico.



Quest'ultima elaborazione teorica ha senza dubbio il vantaggio di differenziare maggiormente le basi cognitive che stanno a fondamento dei vari disturbi di personalità, offrendo quindi l'ulteriore vantaggio di permettere in ambito clinico una maggiore specificità di trattamento, ma presenta, lasciando da parte l'esigenza di più ampi approfondimenti sperimentali di conferma (necessità del resto riconosciuta dagli stessi autori), alcuni aspetti problematici.
Innanzitutto, le teorizzazioni circa le corrispondenze fra particolari tipi di attaccamento, stili od organizzazioni di conoscenza e disturbi di personalità appaiono in certa qual misura troppo algoritmicamente perfette e "squadrate" tanto da sembrare quasi delle elaborazioni ad hoc che vogliono fare rientrare in una rigida classificazione e sequenza quadri che, come si è visto, sono in realtà molto sfumati fra loro, spesso sovrapponentisi e non sempre così bene identificabili.
In secondo luogo, non è ben chiaro come la presenza di un determinato stile cognitivo possa essere alla base di tre o quattro disturbi di personalità diversi. Come avviene allora la differenziazione? Anche in questo caso ci troviamo di fronte, anche se in misura quantitativamente minore, al problema, già sopra rilevato, di una scarsa specificità nelle ipotesi eziologiche.
Infine, in questo come negli altri modelli cognitivi, non risulta sempre evidente perché un soggetto scelga determinate tattiche difensive piuttosto che altre. Si potrà obiettare che questo fatto è una carenza dell'interpretazione cognitiva dei disturbi di personalità e non tanto del sistema classificatorio che è descrittivo; ma in realtà una classificazione nosologica non può essere puramente descrittiva (pena il frantumarsi in mille quadri inutili); necessariamente deriva da un modello eziologico o per lo meno dovrebbe collaborare all'elaborazione di un tale modello. Il presupposto del DSM di essere ateorico è pura illusione, come abbiamo visto sopra, ma finora non si è ancora pervenuti a un modello abbastanza unitario e soddisfacente.
Ancora nell'opera di Beck e Freeman, i vari disturbi di personalità non sempre si differenziano neppure per le varie forme di intervento terapeutico. Per esempio, nel Disturbo Dipendente il trattamento ha molti aspetti simili a quello dei disturbi d'ansia o delle fobie sociali. Inoltre la terapia del Disturbo Ossessivo-Compulsivo di Personalità non si differenzia da quella di una nevrosi ossessivo-compulsiva. Anzi, anche in base ad altri autori (per esempio Tumer e Beidel, 1988), sembra che quasi tutte le nevrosi ossessivo-compulsive debbano essere trattate come disturbo di personalità (data l'importanza che assume la "relapse prevention" in considerazione dell'elevatissimo rischio di ricadute proprio di questo tipo di pazienti).
Infine nella recente e interessante opera di Chambon e Marie-Cardine (1994) praticamente le stesse tecniche usate in ambito di terapia cognitiva per i disturbi di personalità vengono applicate con successo alle psicosi croniche e alla schizofrenia. Ci troviamo così di fronte a interventi terapeutici almeno in parte simili dalla nevrosi alla psicosi. Ancora una volta dobbiamo forse allora pensare che fra i tipi di quadri, catalogati su due assi distinti, dobbiamo fare solo una questione di differenza di grado e non di totale diversità di natura? La distinzione biassiale è dunque veramente necessaria? Non potrebbe essere più utile parlare in termini di uno o più continua dimensionali?

Le classificazioni dimensionali

In quanto clinici, riteniamo importante una classificazione dei disturbi di personalità che possa essere utile rispetto al trattamento e a questo proposito ci sembra che invece di ragionare solo in base alle singole categorie nosologiche, che dopo quanto detto hanno un carattere non chiaramente differenziante non solo dal punto di vista del trattamento ma anche da quello descrittivo, si potrebbe operare in base a principi di tipo dimensionale, che considerano la presenza di un continuum che si estende dalla "normalità" ai disturbi dell'Asse I e dell'Asse Il. Sotto questo punto di vista, dei fattori biologici produrrebbero un temperamento che in seguito interagirebbe con fattori ambientali, esprimendosi, a seconda della natura di questi, in modo più o meno manifesto, così dando conto dello spettro della personalità che va dalla normale alla patologica. Sono state proposte diverse classificazioni dimensionali di personalità.
Basato su metodiche statistiche di tipo fattoriale è il "modello a 5 fattori di Costa e McCrae (1985) che si sostiene abbia ampia generalizzabilità, forte ereditarietà e notevole stabilità nello sviluppo:

estroversione: emotività espansiva e positiva;
piacevolezza (agreableness): calore, socievolezza;
coscienziosità: responsabilità, non impulsività;
nevroticismo: emotività ansiosa, negativa;
apertura (openness): intellettualità, atteggiamento di ricerca.

Tali classificazioni di tipo fattoriale sono state criticate in quanto condotte su popolazioni normali e quindi la loro utilità rispetto alla psicopatologia sarebbe ancora tutta da dimostrare. Inoltre, esse non specificano i sistemi psicofisici coinvolti né gli stimoli sociali e ambientali rilevanti agenti nello sviluppo della personalità; in tal modo la loro validità di postdittori di eziologia e di predittori di corso è limitata. Così più recentemente si è avuto un rifiorire di classificazioni dimensionali fondate su considerazioni neurobiologiche e psicopatologiche, di cui forse la prima e più classica è senza dubbio quella di Eysenck (1952; 1967), che come è noto, si basa sulle dimensioni di estroversione, nevroticismo e psicoticismo.
Per esempio, Cloninger (1987) ha proposto una classificazione lungo tre dimensioni, fondate su osservazioni neurochimiche e psicofarmacologiche:

- "Inovelty seeking" o ricerca di novità, collegata ad alti livelli di dopamina;
- "harin avoidance" o evitamento del danno, connessa a bassi livelli di serotonina;
- "reward dependence" o dipendenza dalla ricompensa: derivante da alti livelli di noradrenalina.

Ancora più recente è la categorizzazione di Ellison e Shader (1993) che costituisce una ulteriore estensione della proposta di Cioninger e si presenta utile per applicare tale approccio dimensionale alla scelta e all'uso degli psicofarmaci da impiegare nella terapia. Essa prende in considerazione le seguenti dimensioni:

- stile e organizzazione cognitiva e percettiva: anomalie nei processi di elaborazione dell'informazione sono presenti nelle personalità schizotipiche e paranoidi, ma anche in altri tipi, per esempio come nel pensiero dicotomico del borderline; tali alterazioni, almeno in alcuni casi, sono state attribuite ad anomalie biologiche e possono essere ridotte da taluni psicofarmaci;
- impulsività e aggressione: si tratta di un aspetto analogo alla "ricerca di novità" di Cloninger; tali condotte disfunzionali possono essere legate a squilibri neurobiologici, come l'epilessia del lobo terriporale per alcuni quadri impulsivi, alterazioni dei sistemi serotonergici per componwrienti suicidan o aggressivi, di quelli adrenergici per cornporta~ di ricerca di sensazioni forti, o disturbi dell'attenzione con iperattività per altri quadri ancora fondati sull'impulsività e la fàcile distraibilità;
- instabilità affettiva: un concetto molto legato alla "dipendenza dalla ricompensa" proposta da Cloninger; si tratta di persone che si sentono bene solo quando sono apprezzate e lodate, altrimenti il loro umore cade velocemente e si sentono respinte, svalutate e non apprezzate;
- ansia: anche tale concetto è strettamente connesso alla dimensione "evitamento del danno" di Cloninger, anche se Shader riconosce che non è stata ancora trovata una base biologica unificante per tale iperreattività autonomica, che si trova in un'ampia gamma di disturbi, dell'Asse I come dell'Asse II.

Considerazoni conclusive

Se le classificazioni dimensionali sono state elaborate su basi biologiche e sono orientate a facilitare modalità d'intervento puramente farmacologiche, non è però difficile, né privo di utilità, scorgere invece le conseguenze psicoterapeutiche insite in tali concetti, soprattutto in un'ottica di approccio cognitiva e comportamentale. Lo stile e l'organizzazione cognitiva si apre a tutte le analisi e le tecniche di terapia cognitiva esposte da Beck e da'altri, senza necessariamente dovere costringere gli schemi cognitivi del paziente entro le rigorose pastoie di un inquadramento secondo le categorie dei DSM, che possono essere solo puramente indicativei ma dovrebbero poi lasciare adito a un'analisi gpprofondita dei processi cognitivi del singolo soggetto senza ipergeneralizzazioni.
I problemi di impulsività e di aggressione si prestano a interventi fondati sull'autocontrollo e l'autoregolazione (di aspetti cognitivi e non), già da tempo ben noti. La labilità dell'umore facilmente ci porta a pensare alla terapia cognitiva e comportamentale della depressione secondo i classici moduli di Beck e alle procedure di ristrutturazione degli schemi di Sé.
Infine, le risposte di ansia possono essere ridotte sia con tecniche mirate di gestione della stessa (rilassamento, stress inoculation ecc.) sia come conseguenza di interventi adeguatamente coordinati nelle tre aree precedenti, in grado di aumentare la sensazione di controllo dei soggetto sui propri pensieri, comportamenti e sentimenti. Diviene così evidente che da un punto di vista terapeutico è più importante individuare le aree problematiche del singolo paziente, piuttosto che inquadrarlo in una determinata categoria specifica di disturbo di personalità.
Il definire qualcuno affetto da disturbo di personalità può essere utile in quanto comunica che riteniamo il disturbo come qualcosa di profondamente, estesamente e strettamente connesso ai moduli generali di risposta dell'individuo in questione e non come una semplice alterazione di un ambito circoscritto e più limitato. Ciò comporta che la terapia dovrà essere più lunga, maggiormente mirata a schemi cognitivi centrali nella struttura del paziente e a più ampio spettro.
Lo specificare il tipo del disturbo di personalità, invece, al di là di scopi puramente e vagamente descrittivi, di abbreviazione nell'esposizione e di immediato, ma poco specifico, orientamento dell'interlocutore o del lettore, serve molto poco dal punto di vista sia esplicativo, sia classificatorio, sia terapeutico. Per gli scopi terapeutici, poi, sono senz'altro più utili le classificazioni dimensionali.
In conclusione si auspica che le ricerche del prossimo futuro sui disturbi di personalità proseguano soprattutto nella direzione dimensionale, allo scopo di approfondire ulteriormente da una parte eventuali marcatori biologici e dall'altra le relative strutturazioni cognitive al fine di facilitare quella collaborazione sempre più stretta fra interventi farmacologici e psicoterapeutici, che si sta finalmente diffondendo fra gli operatori del settore (cfr. Rovetto, 1996).




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