Dalla collusione coniugale
alla "rappresentazione" familiare


(pubblicato in: Informazione in psicologia, psicoterapia, psichiatria n. 27, Roma, 1996, pp.31-37)

Gaspare Vella* Danilo Solfaroli Camillocci**




Di fronte all'idea di un intervento nell'ambito di un convegno su «Psiche e Teatro», ci è venuto subito da pensare a quante volte nel corso di una terapia, o risentendo il nastro registrato ci siamo trovati avvinti e coinvolti dall'intreccio, dalle emozioni e dalle passioni in gioco, al punto di vivere la situazione come una sorta di happening teatrale dove famiglia e terapeuti, così come pubblico e attori, si ritrovano a essere co-protagonisti di uno stesso dramma1 . Sarebbe stato interessante mostrare questi momenti, magari avvalendosi di attori, ma i vincoli temporali ci costringono a cercare di descrivere con l'insufficienza delle parole quello che le famiglie ci mostrano nel concreto della loro vita, delle loro passioni, della loro gioia, della loro sofferenza.
Per comprendere la complessa "rappresentazione" di una famiglia, bisogna partire da lontano, tenendo presente che si compone di almeno tre generazioni, una delle quali, quella dei nonni è spesso assente fisicamente dalla scena, ma è ben presente nel vissuto di tutti.
Il punto focale della rappresentazione, che si mantiene sempre al centro della scena, è la formazione e il mantenimento della coppia coniugale.
Novità della relazione coniugale
La relazione coniugale è una relazione assolutamente nuova e insolita, in quanto è una relazione vitale paritaria. Le relazioni esperite in precedenza o non sono vitali , cioè non assolvono a bisogni profondi dell'uomo in una paragonabile pluralità di aree, o non sono paritarie, cioè non prevedono una sostanziale parità di dipendenza reciproca per la soddisfazione dei propri bisogni personali, né una cooperazione a pari titolo per la realizzazione degli obiettivi della relazione. Per esempio, la relazione figlio-genitore è una relazione vitale, ma non paritaria; la relazione amicale è una relazione sostanzialmente paritaria, ma non altrettanto vitale.
Le caratteristiche fondamentali che contraddistinguono la relazione coniugale sono:


La scoperta dell'altro

La scoperta e la valorizzazione della differenza sessuale e l'appagamento di sé come essere sessuato che essa promette, fornisce la spinta per allontanarsi dalla relazione filiale. L'altro tende a essere percepito - più che come soggetto distinto, dotato di un proprio, differente mondo di significati - come un nuovo, desiderabile elemento che viene a far parte della nostra realtà. L'altro, con la sua differenza, appare capace di dare una risposta positiva e totale alle proprie aspettative di una perfetta complementarietà; diviene, allora, altamente desiderabile e la spinta all'unione è in realtà una fortissima spinta all'inclusione. Si è talmente affascinati dalle desiderabili qualità dell'altro da non vedere e desiderare che quelle; non vengono colte, o vengono sottovalutate profondamente, le caratteristiche che invece contrastano con questa immagine. La relazione si esprime sulle righe della cattura, della subornazione (si pensi ai filtri magici d'amore, ai ricatti dei potenti per conquistare l'oggetto della loro passione ecc.), della seduzione, in una linea sostanzialmente autoerotica.
E' questo il punto di partenza: la spinta verso una relazione di possesso e di potere: l'altro ha il potere (nel senso della potenzialità) di darmi tutto ciò che cerco, ma al contempo ha il potere (nel senso della discrezionalità incondizionata) di negarmelo. E' necessario perciò che io usi tutto il mio potere per evitare che l'altro mi sfugga o mi escluda da parte del suo mondo. Si tratta di un atteggiamento profondamente narcisistico che dà luogo a idee deliranti di esclusione, morte e rovina, se l'oggetto amato sembra sfuggire, e a idee altrettanto deliranti di inclusione nel caso contrario.
Questo atteggiamento è alimentato dalla connivenza e dalla collusione. Non usiamo questi termini nel significato eticamente negativo comunemente attribuito loro nella lingua italiana. Al termine connivenza diamo il significato etimologico del termine latino conivere che vuol dire: «chiudere gli occhi, far mostra di non vedere». Ciascuno dei due coniugi si comporta, cioè, in modo da chiudere gli occhi sugli aspetti e le caratteristiche dell'altro che non trovano una sistemazione ottimale nel proprio mondo, anzi, possono contrastare con esso e incrinarne la pretesa coerenza. Per collusione intendiamo, con Laing, un autoinganno, una fantasia su di sé, confermata, alimentata e rinforzata dall'altro con cui si è in relazione. Un uomo e una donna che partono dall'attesa di una perfetta complementarietà, una volta entrati in relazione, si comunicano reciprocamente in modo ambiguo e allusivo quello che sono e quello che possono divenire. Per fornirsi mutuamente una conferma devono farsi reciprocamente delle richieste; esporsi in questo modo al rischio di un rifiuto o di una disconferma richiede sia sicurezza di sé che fiducia nell'altro. «Benché il desiderio di una risposta confermativa da parte dell'altro sia presente in ognuno, spesso accade che la persona presa fra fiducia e sfiducia, sicurezza e disperazione si risolva a compiere falsi atti di conferma su una base di simulazione»2. La collusione si determina quando una persona trova l'altra capace di «confermarla» nella posizione di fantasia che egli stesso (ella stessa) cerca di rendere reale, e viceversa. In questo caso si prepara il terreno per una reciproca, prolungata elusione della verità, dell'appagamento e della realtà. Ciascuno ha trovato un altro disposto ad avallare la propria nozione di se stesso elaborata in fantasia e a prestare a questa finzione una certa sembianza di vita.
Questo è il punto di partenza di ogni coppia, una collusione che investe di sé gran parte della relazione e che mantiene viva l'attesa della complementarietà perfetta. Siamo di fronte a un legame con un'altissima posta in gioco, che investe tutte le aree di vita dei contraenti e che ha come presupposto un autoinganno reciproco. Quale migliore inizio per lo svolgersi di un dramma? Usando la parola nel senso etimologico del termine greco: azione!
L'immagine della perfetta complementarietà si alimenta sui miti personali. Con mito intendiamo una credenza poco realistica, acriticamente accettata, che, rispondendo a bisogni profondi, influenza pesantemente il comportamento, le attese e gli atteggiamenti di un individuo o di un gruppo. L'impatto della realtà con questi miti è tanto più duro e difficile quanto più il contesto riveste importanza per le persone coinvolte. E' naturale perciò che questo patrimonio di miti assuma un'importanza particolare in un contesto, come quello coniugale, nel quale la posta in gioco è altissima e a tutto campo.
Il mito non trova una corrispondenza immediata nella realtà attuale, ma è una costruzione che si proietta nel futuro: in quanto tale, genera un complesso di aspettative.
Un primo tipo di miti riguarda se stessi. Può trattarsi di credenze negative, del tipo: «Qualsiasi cosa faccia finirò per essere respinto», «Prima o poi verrò abbandonato», «Ogni mia mossa di autonomia sarà scambiata per un rifiuto», «Si può contare solo su se stessi». Oppure di credenze positive, come «Tutto ciò che faccio desta ammirazione», «So consolare e salvare» ecc. Questo insieme di credenze deriva dalle esperienze personali di vita, che si sono costruite fin dall'infanzia nelle relazioni fondamentali con le figure affettivamente rilevanti.
Sul riscatto dai miti negativi, o sul pieno espletamento di quelli positivi si innestano i miti sull'altro e sulla relazione con l'altro. Questi emergono dalle vicissitudini e dalle caratteristiche delle relazioni sviluppate fin dall'infanzia con i genitori e dalla disamina via via più attenta della loro relazione coniugale: il risultato è l'immagine idealizzata di una relazione, capace di mantenere tutte le caratteristiche positive che legano il figlio al genitore del proprio sesso e, contemporaneamente, di colmare tutte le carenze attribuitegli nella relazione con il coniuge.
Inoltre, i miti non sono isolati, ma si vanno cercando. Una persona nella quale sono stati alimentati miti largamente positivi su se stesso - del tipo «so fare bene le cose», «so aiutare efficacemente gli altri» - è anche una persona mal capace di tollerare frustrazioni di questa sua aspettativa di grandezza su se stesso e di conseguente ammirazione da parte degli altri. Sarà perciò facilmente affascinato da una persona che vive miti opposti di autosvalutazione e di desiderio di valorizzazione. Chi, ad esempio, può mostrarsi più valorizzante di un "aspirante salvatore"? E chi più grato e adorante di un "aspirante salvato"? Si manifesta, perciò, tra i due, una collusione dei miti. I miti sono intrisi di potere: potere fantasticato sull'altro e potere dell'altro temuto. Riversare su una persona delle aspettative, delle quali è del tutto ignara, costituisce una netta, anche se inconsapevole, manifestazione di volontà di potere: l'altro non è l'irrompere dell'inaspettato nella nostra vita, anzi crediamo di riconoscere in lui esattamente ciò che abbiamo già sognato e previsto. E' una nostra creatura autoerotica, capace di rispondere a tutto ciò che cerchiamo.
I miti sono però anche una prigione: il divario tra ciò che l'altro è e quello che noi miticamente ci aspettiamo che sia, costituisce di fatto gran parte del potere straordinario che gli attribuiamo nei nostri confronti. La possibilità che ciò che andiamo affannosamente cercando potrebbe esserci negato capricciosamente e ingiustamente dall'altro, manifestata dai suoi tentativi di sottrarsi alle nostre pretese, costituisce una pressione su di noi con la quale tocca fare i conti.
I primi eventi della relazione che smentiscono l'attesa della perfetta complementarietà suscitano reazioni di dispetto e immagini di tradimento («Ma come? tu stesso mi hai fatto credere che avrei ottenuto questo!») cui si reagisce con azioni di potere: se la complementarietà non si rivela perfetta, non è perché non può esserlo, ma perché tu, inspiegabilmente ti rifiuti di darmi quello che so che tu puoi darmi.
L'influsso delle famiglie d'origine
La situazione risulta complicata dal fatto che il matrimonio non è un fatto tra due persone. Entrambi sono convinti di avere sposato un individuo, ma in realtà hanno sposato un'altra famiglia, che vuole utilizzare il coniuge estraneo per riprodursi, ma non vuole assumersi la responsabilità di accoglierlo come membro effettivo del nucleo familiare.
Questa sostanziale estraneità rispetto alla famiglia dell'altro è, quasi sempre, messa in conto e non comporta difficoltà insormontabili. Analogamente, molti genitori, pur avvertendo lo stimolo a far sì che la famiglia del figlio o della figlia riproduca i modelli della propria, riescono a controllarlo e limitano il proprio intervento a qualche commento più o meno opportuno e ad azioni di supporto, in particolare verso i nipoti: riescono, così, a trovare un minimo di equilibrio e di rispetto per la diversità portata dai criteri di vita della nuora o del genero.Questo è tanto più semplice, quanto più il proprio figlio è davvero uscito dalla famiglia e i suoi genitori hanno sufficienti risorse personali e di coppia per trovare un nuovo equilibrio familiare. Diverso è il caso in cui, invece, il figlio non ha "ottenuto il permesso" di uscire, in quanto essenziale all'equilibrio della sua famiglia d'origine. Allora, almeno uno dei genitori irromperà sulla scena e tenderà a interferire pesantemente nel nuovo nucleo familiare.
L'interferenza delle famiglie d'origine può essere particolarmente massiccia:


L'interferenza:

Ciò rende difficile discutere la situazione, senza correre il rischio di sentirsi tacciare di ingratitudine. Inoltre, è sempre difficile scontrarsi con il proprio coniuge, accusandolo di essere "un figlio che ama i propri genitori".
L'interferenza non è realmente imputabile al coniuge, ma non è possibile scontrarsi con i suoceri senza mettersi in difficoltà con quest'ultimo e senza creargli problemi, preso come sarà tra due fuochi.
La situazione si complica ancora allorché entrambe le famiglie d'origine interferiscono sulla vita della nuova coppia, in una sorta di gara di sollecitudine e di tentativi di influenza, che scatenano litigi interminabili, prima tra i consuoceri e poi, inevitabilmente, tra i coniugi, irresistibilmente spinti a difendere i propri genitori dalle violente accuse espresse dai suoceri. Spesso, questo contendersi il potere sulla coppia comincia ancora prima del matrimonio e investe aspetti patrimoniali e organizzativi che vengono sottratti in parte o in toto agli stessi sposi. Questo clima continua dopo il matrimonio e i primi dissapori tra i due giovani vengono sistematicamente attribuiti all'influenza maligna dell'altra famiglia. Nella nostra esperienza, queste situazioni si risolvono quasi sempre con la separazione della coppia: ciascuna delle due famiglie si riprende il "prezioso" figlio in un clima di rancori e di accuse reciproche che, a volte prosegue anche a lungo, specialmente se la guerra continua sulla pelle di un nipote.
La comparsa dei «ruoli-maschera»
Gli eventi che progressivamente tendono a mostrar disattesa l'attesa della perfetta complementarietà rendono incomprensibile il comportamento dell'altro. Perché non corrisponde alle mie attese? Si apre una dissonanza cognitiva che deve essere colmata: ciò viene fatto tramite l'attribuzione reciproca di «ruoli-maschera». E' un processo che, un po' arditamente, possiamo analogare all'evoluzione del mascherarsi dell'attore nell'antica tragedia greca: «prima con la biacca, poi con la maschera leggera di lino, poi con quella lignea che, pare con Eschilo, divenne policroma»3. Sono ruoli che trovano fondamento nella realtà della situazione familiare nucleare e d'origine; tuttavia, la caratterizzazione e l'uso strumentale, che ne vengono fatti, determinano un incapsulamento reciproco dei coniugi nel ruolo attribuito. Ciascuno di essi, di fronte all'inspiegabilità del comportamento dell'altro, cerca di colmare la dissonanza cognitiva - che suona sempre anche come dissonanza affettiva - attraverso l'attribuzione di un ruolo maschera, cui l'altro si adatta senza contestarne apertamente l'inautenticità.

ESEMPIO

Lui viene descritto dalla moglie come molto occupato e per questo nervoso; è necessario salvaguardarne il riposo quando torna a casa; i figli vengono spesso ammoniti sul fatto che papà fa un lavoro importante e impegnativo e che pertanto non deve essere disturbato quando torna a casa; di fatto si traduce in una sottile squalifica del padre o in una designazione di tirannia nei suoi confronti, ma risulta comunque in una esautorazione della paternità che non riesce ad esercitarsi se non per il tramite della madre. Appare così evidente l'aspetto di potere insito nel ruolo-maschera.
Lei viene descritta dal marito come sacrificale, dotata di una dedizione eccessiva e soffocante; sempre a rischio di rovinare i figli per un eccesso di invasività nella loro vita; il messaggio è quello di sottrarsi alla sua invadenza, accentuando le difese dei propri spazi. Sfuggire alla gestione della moglie è la sua mossa di potere. Come si può vedere si tratta di due ruoli-maschera che si rinforzano vicendevolmente in un circolo vizioso: quanto più lui si sottrarrà;, tanto più lei sarà gestente, e, viceversa, quanto più lei sarà gestente, tanto più lui si difenderà ritirandosi.
Quando il confronto coniugale è molto duro e i ruoli maschera sono assai rigidi, essi costituiscono una sorta di compromesso, di tentativo di "salvar capra e cavoli", nel timore che il legame che li unisce possa rivelarsi tragicamente fragile. Questo tentativo inefficace coesiste con un succedersi di provocazioni reciproche che hanno lo scopo di spingere l'altro a smentire o a confermare il suo ruolo. Se il circolo vizioso cui danno luogo non si interrompe, i ruoli diventano progressivamente una prigione e sono i principali responsabili della solitudine e della sofferenza della coppia. Sono questi ruoli-maschera che attraggono e ingannano i figli.
Nella tragedia greca il coro si identificava col pubblico e in qualche modo lo rappresentava; i figli svolgono per lungo tempo questo ruolo: assistono all'azione drammatica, senza parteciparvi direttamente, ma nella loro mente e nella vita della famiglia fungono da raccordo ai vari eventi significativi e ne seguono il dipanarsi alla ricerca anch'essi di una unitarietà e coerenza di significati. Nella gran parte dei casi ciò è possibile senza gravi difficoltà, ma quando i ruoli maschera sono particolarmente rigidi, quando l'azione degli attori in scena - cioè di mamma e papà - è particolarmente incomprensibile, i figli - e in particolare uno di essi - possono essere tentati di abbandonare il ruolo del coro per entrare di persona nella scena nel tentativo di sbloccarne la ripetitività e di scioglierne l'incomprensibilità.
Gli atteggiamenti dei figli sembrano differire per livelli di maggiore o minore coinvolgimento diretto e collocarsi tra due estremi, caratterizzabili, il primo, dalla riflessione «E' una situazione complessa e intricata, che origina da prima che io nascessi. Non so cosa farci» e il secondo da «Non sanno cavarsela da soli, bisogna che io faccia qualcosa ad ogni costo!»
ESEMPIO:
Famiglia con quattro figli in situazione di forte rigidità.
Primogenito: neutralità attiva che sembra derivare dal riconoscimento di una complessità che supera le sue possibilità di comprendere la situazione. Ritiene che un qualsiasi intervento da parte sua rischi di creare sofferenza e di determinare una frattura insanabile tra lui e i genitori con una sua irrimediabile perdita di credibilità. E' costretto perciò a permanere in un fragile e delicato equilibrio fatto più di silenzi che di parole, più di cautele che di interventi.
Secondogenito: più pronto ad effettuare valutazioni, a cercare di individuare ragioni e torti. Coglie tuttavia la complessità di questa operazione, e ne sottolinea soprattutto la pericolosità affettiva: definire ragioni e torti significa di fatto appoggiare uno dei genitori e ciò comporta inevitabilmente la sofferenza dell'altro. Sente tuttavia di non poter fare a meno di intervenire, di cercare "di smuovere le situazioni ferme".
Terzogenito: si sente capace di distinguere le cose oggettive da quelle soggettive, di individuare con certezza situazioni di reale difficoltà di un genitore rispetto all'altro. Ha compiuto una semplificazione della realtà: gli sfuggono l'azzeramento e la correlata parità che caratterizzano la relazione dei suoi genitori, non avverte o sottovaluta la tensione emotiva che li unisce. E' portato a distinguere vinti e vincitori e ad intervenire con determinazione, da paladino, in difesa dei "deboli".
Quartogenito: appare a prima vista meno netto rispetto agli altri, come se volesse compromettersi il meno possibile, ma è in realtà quello che più di ogni altro si caratterizza come interventista. Dice in sostanza: "Non serve parlare, bisogna agire ed agire è necessario perché non può continuare così". Questo atteggiamento è quello che più comporta conseguenze gravi per il figlio: infatti manifesta un sintomo.
Secondo la nostra esperienza, un atteggiamento come quello di quest'ultimo figlio sembra strettamente legato a una spinta attiva a intervenire, che porta il figlio a incappare in una specie di «pania», termine che troviamo particolarmente pregnante in quanto ingloba contemporaneamente l'aspetto dell'allettamento d'amore e quello della trappola. Non riesce più a tornare al suo posto, nel coro; come attore, si ritrova immerso in un'azione drammatica di cui gli sfuggono gli elementi portanti, le linee guida, il copione. Gli attori veri, mamma e papà, si rivelano imprevedibili, non si lasciano influenzare più di tanto dalla sua entrata in scena, anzi tendono progressivamente a includerlo in un copione che, lungi dal diventare per lui più comprensibile, gli appare sempre più ingarbugliato e inspiegabile.
La confusione che prova, l'inspiegabilità della situazione in cui dolorosamente si dibatte emergono con forza in questa descrizione di un giovane paziente:
Ero nervoso, agitato. Non riuscivo a capirne il motivo. Mia madre ha agito in qualche modo a mio discapito con la mia ragazza. E' una cosa che fa anche con altri: si insinua lentamente, entra sempre di più nella coscienza, finché fa leva su qualche debolezza o usa comportamenti che solo lei conosce. In sostanza, si fa dare un ritorno di comportamento secondo la sua mente, che, secondo me, è tutta finalizzata alla propria sopravvivenza e crea delle difficoltà, degli ostacoli che sono molto pericolosi per la mia esistenza, per la mia stabilità mentale, per il mio equilibrio, per la mia sopravvivenza. In qualche modo deve impedirmi di pensare in maniera razionale... E' come far fare a una persona un test, facendogli intravedere una soluzione, che in realtà non esiste. A questo punto la persona rischia di impazzire, perché non trova... cioè, la mente comincia a lavorare a ritmi elevatissimi!
Il bisogno di comprendere, di trovare un quadro di riferimento che ridia unità e coerenza di significato e di emozioni a una realtà divenuta sempre più incomprensibile, porta la mente "a lavorare a ritmi elevatissimi", senza riuscire a trovare né sosta né liberazione. La pania impedisce l'uscita dalla scena e si manifesta come una terribile "malattia della verità", secondo la felice definizione che ne ha dato un giovane paziente, citando a memoria i significativi versi di Montale:

La verità è nei rosicchiamenti dei topi e delle tarme,
nella polvere che esce dai cassetti ammuffiti,
nelle croste di grana stagionato.
La verità è la sedimentazione e il ristagno
non la logorrea schifa dei dialettici.
E' una tela di ragno, può durare.
Non distruggetela con la scopa.

La descrizione che abbiamo fatto si adatta particolarmente a famiglie dove questi fenomeni assumano una consistenza e una rigidità notevole, ma, in una certa misura, la difficoltà del figlio a decrittare il comportamento relazionale dei genitori, la loro rappresentazione, si presenta in ogni famiglia, come anche la sua tentazione a entrare in scena, uscendo dal coro. Fortunatamente per lui, questa tentazione è, nella maggior parte dei casi, episodica così che viene presto superata; il giovane o la giovane, pur mantenendo il loro posto nel «coro familiare», si avviano con sempre maggiore decisione per la costruzione di una nuova, personale rappresentazione drammatica.

*  Ordinario I Clinica Psichiatrica Università "La Sapienza" di Roma.

**  Didatta della Società Italiana di Psicologia e Psicoterapia Relazionale.


1 Diamo a questa parola il significato del termine greco, "azione", e non necessariamente con l'accezione tragica e dolorosa che tende ad assumere nella lingua italiana.
2 Laing R.D., L'io e gli altri, Firenze, Sansoni, 1969.
3 Lanza D., L'attore, in Oralità scrittura spettacolo, a cura di M. Vegetti, Torino, 1983.