L’etnologia e lo studio
transculturale
degli stati di coscienza


Fabrizio Speziale  *

Informazione Psicologia Psicoterapia Psichiatria", n° 21, gennaio aprile 1994, pagg. 13-20




Una precisa e adeguata individuazione degli ambiti metodologici e di contenuto della disciplina etnopsicologica, in riferimento specifico allo studio transculturale degli stati di coscienza, assume la forma di un processo di computazione, cioè: un pensare insieme le cose (Foerster, 1987), che esprime la complessa prospettiva interdisciplinare che sottende tale definizione degli ambiti di una disciplina di confine come l'etnopsicologia. Aspetto primo di tale processo è l'affermazione della centralità della coscienza e della varietà dei suoi stati per la psicologia, e per i quali si propone una metodologia di studio transculturale. La prospettiva transculturale precisa una dimensione di analisi di certe società e culture tradizionali in cui gli stati non ordinari di coscienza di estasi e trance (1), vengono abitualmente e abbondantemente usati, con una funzione esplicitamente terapeutica, in contesti definiti dallo sciamanismo e dalle religioni estatiche.E una volta acquisito definitivamente il ruolo della coscienza quale oggetto primario della psicologia - acquisizione recente ed epistemologicamente tutt'altro che indolore - si rivela l'importanza della disciplina etnopsicologica per la psicologia generale tutta, in virtù della sua capacità di restituirci l'autenticità di quella dimensione di conoscenza e di esperienza che è la naturale tendenza dell'uomo ad esperire le diverse forme della sua coscienza. Tale individuazione etnopsicologica vorrebbe poi prestarsi anche ad una lettura più ampia, avere una sorta di struttura a doppia entrata e cioè: essere non solo una considerazione psicologica di alcuni fenomeni antropologici, ma anche offrire a un ambito di studi etnologico, definitivamente consapevole dell'insufficienza di un riduzionismo psichiatrico e psicoanalitico, basato sull'uso più o meno appropriato del vocabolario psicopatologico, un modello interpretativo sufficientemente aperto, complesso e articolato, tale da cogliere la ricchezza del fenomeno che si vuole osservare. In primo luogo è quindi opportuno chiarire la relazione che la disciplina etnopsicologica intrattiene con l'etnopsichiatria e l'etnopsicoanalisi.


Etnopsichiatria ed

etnopsicoanalisi

Prodotto fondamentale dell'incontro della materia antropologica con la psichiatria e la psicoanalisi è la riduzione delle religioni estatiche, sciamanismo e finanche le stesse culture che li esprimono, tutte intere, a veri e propri manicomi istituzionalizzati per primitivi. Nella letteratura etnopsichiatrica estasi e trance diventano cosi variamente sinonimi di isteria, nevrosi, psicosi, epilessia o schizofrenia (per rassegna completa di questi studi si veda Eliade, 1974 e Lewis, 1972). Ma la legittimazione teorica più significativa dell'uso del riduzionismo psicopatologico, è operata dall'etnopsicoanalisi. Elemento centrale di tale legittimazione è la famosa "equazione di identità" di Freud fra bambino = nevrotico = primitivo (Freud, 1953), le cui vaste implicazioni verranno poi sviluppate da Roheim (1972) e Devereux (1978). Muovendo dalla tesi di Roheim dell'unità psichica dell'umanità che sancisce la validità metaculturale e universale dell'analisi psicoanalitica delle culture, Devereux afferma che la psicosi dello sciamano non è in realtà altro che la manifestazione di una struttura psicopatologica che sottende tutta l'organizzazione delle società tradizionali.

 

Nonostante numerosi etnologi e storici delle religioni (Eliade, 1974; Rouget, 1986; Lapassade, 1980; e Lewis, 1972), abbiano radicalmente rimesso in discussione la fondatezza dell'analisi psicopatologica, questa rimane ancora largamente diffusa e spesso l'unico strumento interpretativo della teoria antropologica delle religioni estatiche di psichiatria e psicoanalisi.

 

E così, a questo punto, essenziale chiarire come una adeguata individuazione dell'etnopsicologia, debba passare imprescindibilmente attraverso l'affermazione della completa inadeguatezza del riduzionismo psicopatologico a svolgere un'analisi interculturale degli ASC riduzionismo psicopatologico che un'adeguata esplicitazione dei presupposti epistemologici che lo sottendono inevitabilmente riduce a una costruzione proiettiva ed etnocentrica.

Ciò non significa negare l'esistenza del disagio mentale presso altre culture, ma notare semplicemente, come diceva Maslow, che se il solo strumento che hai è un martello allora tutto comincia ad assomigliare ad un chiodo. Gli ASC, l'estasi e la trance non hanno, all'interno delle teorie etnopsichiatriche ed etnopsicoanalitiche, diritto ad alcun rilievo concettuale autonomo, ma devono essere ricondotte a un modello esplicativo altro, che ne offre una spiegazione principalmente nei termini della scelta di dove tali comportamenti debbano essere situati all'interno di un continuum normalità-patologia; dando poi per scontata l'assenza di dubbi a proposito della scelta di tale collocazione.

Ed è possibile rilevare una difficoltà intrinseca dei modelli etnopsichiatrico ed etnopsicanalitico a cogliere certi aspetti determinanti e culturali dell'estasi e della trance, dovuta essenzialmente alla non disponibilità nelle teorie psichiatrica e psicoanalitica di riferimento di categorie concettuali che offrano di tali fenomeni ipotesi interpretative alternative alla regressione e alla dissociazione dell'io - il martello di Maslow!

 

Fenomenologia dell'estasi

e riferimenti

epistemologici della

disciplina etnopsicologica

Aspetto definitorio centrale del vissuto sciamanico, e oggetto privilegiato del riduzionismo psichiatrico, è la chiara tendenza dell'estasi a indurre una certa permeabilità dei confini dell'io che porta alla proposta dell'adozione di un modello etnopsicologico capace di cogliere la peculiarità di tale processo di superamento dei confini di sistemi psicologici, oltrepassando la controversia normalità-patologia. E più esattamente, offrendo delle religioni estatiche ciò che Geetz (1987) chiama una descrizione orientata rispetto agli attori; cioè una prospettiva etnopsicologica allargata che integri nella propria teoria i contenuti stessi che la conoscenza estatica realizza secondo il sapere tradizionale di queste società.

Ciò in etnopsicologia corrisponde a una ben precisa e consapevole riflessione epistemologica, il cui esito è l'elaborazione di un modello che, come dice Rorty (1986), assomiglia molto di più a <<familiarizzarsi con il gergo dell'interlocutore, piuttosto che tradurlo nel nostro>> e i cui presupposti sono da ricercarsi essenzialmente nella teoria dei giochi linguistici di Wittgenstein (1967), nel costruttivismo antropologico di Vico (1816), in certe tesi (olismo, egualitarismo epistemologico) del relativismo epistemologico di autori come Feyerabend (1973), nel paradigma della complessità (Morin, 1989; Bocchi e Ceruti, 1985), nell'ermeneutica antropologica di Geertz (1987).

Alcuni esiti particolarmente rilevanti, di tali riferimenti epistemologici in etnopsicologia, sono: la considerazione della reintegrazione del ruolo dell'osservatore, formalizzata dalla transizione da una epistemologia dei sistemi osservati a una epistemologia dei sistemi osservanti (Foerster, 1987); la possibilità di ovviare a una riduzione dell'analisi interculturale a una costruzione proiettiva di realtà - come per l'etnopsichiatria e l'etnopsicoanalisi - attraverso l'adozione di una modellistica descrittiva del tipo "come se" (Olivetti Belardinelli, 1974), che ci permetta di concettualizzare una data fenomenologia antropologica come un sistema complesso di parti interagenti, del quale diventa possibile descrivere parametri come lo stato di equilibrio, la relazione con l'ambiente, i meccanismi di riequilibramento; la rivendicazione del ruolo dell'interpretazione, dell'analogia e della metafora rispetto all'assoluta pretesa di oggettività della spiegazione causale del meccanicismo riduzionista.

Ciò che della fenomenologia estatica - come una descrizione orientata rispetto agli attori - emerge, in una tale prospettiva allargata, sono alcuni aspetti peculiari e determinanti qui di seguito:

a) L'estasi è una forma di conoscenza; dall'analisi dei contenuti di tale dimensione conoscitiva procedono b) e c).

b) La conoscenza estatica è una dimensione di superamento dei confini dei sistemi psicologici. Il viaggio estatico è una tecnica di comunicazione fra i diversi sistemi dell'ordinamento del cosmo.

c) il rituale estatico è un processo di reintegrazione all'interno di un ordine più vasto.

Per quanto al punto a), nel definire l'estasi una forma di conoscenza non si fa altro che riconoscergli uno status che le società tradizionali affermano esplicitamente e anzi considerano una caratteristica fondamentale dell'esperienza estatica: <<gli sciamani sono persone di conoscenza>> (Hamer, 1980).

Una delle etimologie proposte per il termine sciamano deriva dalla radice tungusa "Sa", che significa appunto conoscere (Walsh, 1989).E partendo da una adeguata considerazione del rapporto fra estasi e conoscenza che può avviarsi una ridefinizione etnopsicologica del fenomeno, che superi la diagnosi di delirio allucinatorio e si soffermi invece sui contenuti di tale dimensione conoscitiva, la cui analisi ci permette di rilevare ulteriori aspetti contestuali dell'estasi, quanto ai punti b) e c).

Per quanto al punto c): la considerazione del rituale estatico come processo di reintegrazione all'interno dell'armonia del cosmo è un modello terapeutico largamente attestato e descritto compiutamente già da Platone per la mania dionisiaca. Come precisa Geertz si può considerare definitivamente acquisito il fatto che il rituale religioso <<proietta immagini di ordine cosmico sul piano dell'esperienza umana..., ma non esiste la struttura teorica che ci permetterebbe di fornirne un resoconto analitico>> (Geertz, 1987).

La possibilità di formalizzare tale aspetto fondamentale delle religioni estatiche, è un elemento fondamentale del modello etnopsicologico. Tale formalizzazione è essenzialmente una metafora del modello cibernetico dei sistemi ad autoorganizzazione, o più correttamente, come dice Morin, ad autoecoorganizzazione.

Secondo la definizione di Foerster(1987) un sistema autoorganizzatore è un sistema capace di incrementare nel tempo il proprio ordine; chiamando R l'unità di misura d'ordine ciò può essere espresso così: ~R/At>O.

Il suo utilizzo in questo contesto vuole essere un modo per formalizzare quell'aspetto dell'estasi sciamanica che è la capacità di ristabilire l'ordine delle relazioni fra gli uomini attraverso il riequilibriamanto dell'armonia del rapporto fra uomo e cosmo. Ciò che si vuole dire è che la conoscenza estatica dello sciamano svolge, rispetto al gruppo sociale di appartenenza, la funzione di un processo integratore d'ordine.

E questo equivale semplicemente alla considerazione di un certo sistema sociale, nel quale alcuni membri ritualizzano l'induzione di ASC, come un sistema capace di essere autocorrettivo in direzione del ristabilimento dell'ordine percepito dai suoi membri, e in cui tale alterazione rituale svolge il ruolo di servomeccanismo di tale processo di autoregolazione.

Per essere più chiari, l'analogia cibernetica è un modo per sottolineare alcuni elementi fondamentali, mediati all'interno del rito estatico, che sono: la percezione soggettiva di disagio e di benessere dei membri di un gruppo sociale; questi elementi sono il punto di partenza e il punto di arrivo di un processo nel quale il gruppo, attraverso alcuni suoi membri specializzati, attiva alcuni comportamenti di garantita efficacia per assicurare la transizione dal disagio percepito all'equilibrio, dal disordine all'ordine. La capacità dei membri specializzati di realizzare tale transizione attraverso forme non ordinarie di coscienza è una caratteristica fondamentale del processo.

Secondo Foerster, un vincolo dei sistemi autoorganizzatori è di trovarsi in perpetua interazione con un ambiente con ordine ed energia disponibili. Ciò permette di formalizzare alcuni ulteriori aspetti della fenomenologia estatica come descrizione orientata rispetto agli attori, e cioè il fatto che questa, come processo integratore d'ordine, funziona essenzialmente in virtù di una struttura cosmologica che garantisce un rapporto di continuo e molteplice scambio fra sistema individuale-sociale e ordine cosmico. L'estasi è una tecnica di comunicazione che permette una rottura di livello fra i diversi sistemi della struttura dell'universo nel suo centro: l'axis mundi (Eliade, 1974), viaggiando attraverso il quale lo sciamano può integrare ordine all'interno del sistema individuale sociale per assimilazione dal più vasto ordine cosmico.

Lo sciamano è un viaggiatore cosmico anche secondo Walsh (1990) che opera una rottura di livello fra le diverse zone del cosmo e il suo canale di comunicazione; una comunicazione illo tempore aperta a tutti gli uomini, ma ora prerogativa del viaggio estatico dello sciamano, che trasforma così un ideogramma cosmologico in un concreto vissuto esperienziale.

L'autoecoorganizzazione, come processo integratore di ordine nel sistema individuale sociale per assimilazione cosmica, può poi realizzarsi, come dice Morin (2), in virtù di una particolare forma di relazione inclusiva (relazione ologrammatica) che lega la parte e il tutto, l'uomo e il cosmo.

Secondo Pribram (1978): <<in un ologramma non c'è un io opposto a qualcosa altro... noi abbiamo in noi stessi la rappresentazione del tutto... questo già è accaduto in certe esperienze religiose, ma è adesso destinato a diventare una esperienza scientifico-religiosa>>, che soprattutto ci consente di considerare <<i resoconti verbali delle esperienze dei soggetti come dati>>.

È in virtù di tale relazione di ordine implicato, che per lo sciamano è un reale vissuto esperienziale, che le religioni estatiche celebrano la più ampia ecologia di un universo di partecipazione: <<per lo sciamano tutto è sacro, interconesso e interdipendente, tutte le creature sono parte di una grande rete della vita che mantiene le cose in armonia>> (Walsh, 1990).

Una dimensione analoga a quella visione coesiva della terra, con tutto ciò che vi è sopra, come un solo e complesso sistema vivente, formalizzata recentemente dallo scienziato inglese Lovelock (1985) nell'ipotesi geofisiologica di Gaia.

Ciò che è opportuno precisare è che il senso dell'analogia cibernetica e sistemica qui proposta è quello di una metafora del tipo "come se" — <<un congegno esplicativo che non contiene nozioni causali>> (Foerster 1987) — da noi reificate.

Non un nuovo e gratuito riduzionismo, ma un modo per riflettere sul senso che certe categorie conoscitive ed esperienziali, da sempre presenti nel sapere tradizionale, stanno ormai inequivocabilmente acquistando nella scienza contemporanea (una riflessione, in riferimento alla tradizione buddhista e alle scienze cognitive recentemente operata anche da Varela, Thompson e Rosch, 1993).

 

Transculturale e Transpersonale

Quanto al punto b) e cioè che l'esperienza estatica sia una dimensione di superamento dei confini dei sistemi psicologici, ciò che più precisamente si intende è che l'estasi è essenzialmente una tecnica rituale attraverso la quale lo sciamano impara a trascendere i confini del proprio io; un processo espresso chiaramente nell'etimologia del termine estasi - ek-statis, uscire fuori.

Ciò che l'iniziazione estatica individua, è un ben preciso contesto di apprendimento; ciò che viene appreso in tale contesto è la capacità rituale di indurre ASC in cui trascendere gli abituali limiti della relazione organismo

ambiente, io-altro; qualcosa di analogo a ciò che Bateson (1976) chiama apprendimento 3, cioè, una dimensione di profonda ridefinizione di quella falsa reificazione che è il senso dell'io.

Ciò, in etnopsicologia, è stato recentemente precisato da Nathan (1990), secondo il quale l'efficacia terapeutica dell'estasi sciamanica è da ricercare proprio nella sua dinamica di indotta confusività dei confini dell'io.<<La trance in sé... è un profondo coinvolgimento del proprio io e al contempo un annichilimento di quello stesso io individuale>> (Konner, 1985). Ed è particolarmente rilevante poter formalizzare più precisamente tale aspetto centrale della conoscenza estatica attraverso l'adozione del modello transpersonale della coscienza, quale adeguata concettualizzazione etnopsicologica del processo di superamento dei confini dell'io delle religioni estatiche. Un pensare insieme la più antica e

la più recente forma di psicoterapia basate sull'intrinseco potenziale terapeutico delle forme non ordinarie di coscienza.

E interessante notare, per lo meno per il modo nel quale ciò è ignorato nella psicologia accademica italiana, che la concettualizzazione del transpersonale è uno dei più apprezzati contributi di rilievo internazionale che la cultura psicologica italiana abbia prodotto, nell'opera di Roberto Assagioli, fondatore della psicosintesi; il primo autore a individuare una ben precisa dimensionalità del transpersonale rispetto alla psicologia del profondo. Quella di Assagioli e del la psicologia transpersonale è fondamentalmente una teoria dello sviluppo integrale della personalità, che non nega i contributi della psicoanalisi, della psicologia dell'io, del sé o della teoria delle relazioni oggettuali, considerandoli altresì' modelli psicopatologici e psicoterapeutici adeguati ai livelli di sviluppo pre-personale e personale, ma afferma quella che è la naturale tendenza dell'uomo a superare tale livello, quello dell'io, per realizzare appunto lo sviluppo transpersonale.

Ed è rilevante notare, rispetto al suo utilizzo in etnopsicologia, come il modello transpersonale sia un prodotto esplicito dell'analisi interculturale con le psicologie orientali, una dimensione che esprime cioè, la concreta tendenza allo sviluppo di un modello integrale dell'uomo che sia veramente psicologico e non più la generalizzazione proiettiva di certi stereotipi occidentali, come nel caso dell'etnopsicoanalisi.

Ciò che per la psicologia tradizionale è il punto di arrivo, la cosiddetta normalità psichica e la costanza dell'oggetto, l'individuazione del sé o riassetto non conflittuale di impulsi e difese, ecc., secondo un modello integrale dello sviluppo può essere invece un punto di fissazione e di arresto.

Si tratta cioè di riconoscere che l'io non è altro che < sé e inesistenza del sé... la salute mentale e il completo benessere psicologico le presuppongono entrambi, ma in una sequenza evolutiva appropriata,, (Engler in Wilber, Engler, Brown, 1986). Secondo questi autori il superamento dell'io ha come prerequisito indispensabile una sua precedente ben forte e differenziata individuazione: <<prima di riuscire a non essere nessuno bisogna essere qualcuno,, (Engler, ibidem).

L'introduzione del modello transpersonale in etnopsicologia ci consente di formalizzare definitivamente la differenza della dimensione transegoica dell'estasi sciamanica dalla interpretazione psicopatologica dell'etnopsichiatria, con la quale era stata confusa. Diventa cioè chiaro che nella schizofrenia l'assenza dell'io è un non raggiungimento, mentre nell'esperienza estatica tale assenza è un superamento volontario e trascendenza indotta, nella quale risulta la percezione <<della mutua interdipendenza di tutte le cose e di tutti gli eventi" (Wilber, 1975).

Ciò di cui ci arricchiamo è la consapevolezza di una dimensione psicologica non riducibile ad una forma di regressione, ma essa stessa esperienza umana fondamentale, un elemento che le religioni estatiche, dell'uomo, da sempre affermano.

L 'Etnopsicologia

Ciò che nell'analisi transculturale ed etnopsicologica può essere chiaramente rimesso in discussione è la credenza che il

nostro stato di coscienza ordinario sia in qualche modo normale e naturale; esplicitando definitivamente: <<la natura costruttiva del nostro stato ordinario di coscienza" (Tart,1976).

Ogni cultura, infatti, struttura selettivamente certe possibilità delle esperienze della coscienza e le modella attraverso l'acculturazione; lo stato ordinario non è altro che un modo semiarbitrario di strutturare la coscienza, che facilita certe capacità adattive e inibisce lo sviluppo di altre potenzialità della coscienza umana. La rilevanza dello studio etnopsicologico degli ASC consiste appunto nella possibilità di cogliere tali potenzialità che gli stati altri rendono esperibili, come ben sanno le religioni estatiche.

Ciò che del resto stupisce in un'analisi interculturale diacronica e sincronica (all'interno della quale inserire anche e per prima la nostra stessa cultura), non è la presenza ma l'assenza di forme di alterazione della coscienza. E ciò stupisce ancora di più per il modo nel quale è stato sistematicamente ignorato da etnopsichiatri ed etnopsicoanalisti. L'alterazione rituale della coscienza è un'esperienza presente nel 90% delle società umane (Bourguignon, 1986) e può essere considerata parte del retaggio psicobiologico e precipuo bisogno di quell'"animale cerimoniale" che è l'uomo (Wittgenstein,1975).

Ed è anche per questo che il modello proposto non è una nuova, ma camuffata, forma di riduzionismo transpersonale, ma va invece in una direzione inversa a quella realizzata di solito da una metodologia riduzionista. Nel senso che bisogna riconoscere che mentre lo studio della coscienza e il riconoscimento della valenza terapeutica dei suoi stati altri è nella psicologia occidentale storia recente, le religioni estatiche ritualizzano terapeuticamente gli ASC da migliaia di anni (Peters, 1981), come risulta evidente dal divario fra la ricchezza terminologica del sapere tradizionale sugli stati di coscienza e la terminologia scientifica e nell'elevato livello di elaborazione e raffinatezza delle tecniche di induzione di ASC, rispetto alle quali metodologie occidentali come l'ipnosi risultano abbondantemente più grossolane.

E in virtù di ciò che si può cogliere l'estrema rilevanza dello sviluppo di modelli terapeutici integrati, vere e proprie contaminazioni interculturali di tecniche terapeutiche, come i lavori di. Nathan in Francia, di Collomb a Dakar, di Lambo in Nigeria e di Coppo in Mali, veri e propri laboratori sperimentali di etnopsicologia (Nathan, 1990; Coppo, 1988).

E ciò che in una dimensione ancora più ampia si apre, è la possibilità di un approccio esperienziale, nello studio etnopsicologico degli ASC, che configura così l'etnopsicologia come una <<scienza specifica a uno stato" (Tart, 1976). E questa una prospettiva largamente esplorata in meditazione e che solo recentemente ha prodotto alcuni esempi di etnopsicologia (vedi Harner, 1980; Peters, 1981; Konner, 1985; Walsh, 1 990; Ignacio, 1992).

Il problema, in un tale approccio, è quello di valutare la qualità della conoscenza che deriva dall'autosservazione di vissuti esperienziali, una dimensione che in passato, per una estrema ossessione di oggettività, la psicologia ha vissuto in maniera piuttosto problematica, in quanto il rischio è che ciò che si vede è in realtà ciò che si desidera vedere. Ma in virtù della imprescindibilità epistemologica della

reintegrazione dell'osservatore questa è una condizione che ormai la psicologia condivide con tutte le altre scienze. Anzi la piena consapevolezza delle proprie costruzioni e del fatto che ogni processo di osservazione è anche un processo di autoosservazione sembra essere una posizione ben più matura della circolarità viziosa di una metodologia oggettiva che dà per scontato ciò che in realtà deve dimostrare. Come dice Nietzsche, nella Gaia Scienza, continuare a sognare sapendo di sognare è pur sempre diverso dal sognare puro e semplice.

Sia ben chiaro che il senso di un approccio esperienziale non è quello di scimmiottare lo sciamano; il senso più opportuno di considerare tale approccio consiste nel comprendere che alla base delle tecniche tradizionali di induzione di ASC, vi sono precise tecniche psicofisiologiche del corpo (Mauss, 1965).Ed è proprio attraverso la concettualizzazione in termini di tecniche psicofisiologiche del corpo che l'etnopsicologia può aprirsi a un approccio esperienziale della fenomenologia antropologica degli ASC; come rileva Venturini (1982): <`questo elemento di pratica, di esperienza diretta e non solo di conoscenza è un fatto col quale la psicologia convenzionale deve confrontarsi, ritrovando una dimensione smarrita e una sua fondamentale caratteristica differenziale nei rapporti con le altre discipline scientifiche.

L'apertura al vissuto esperienziale diventa un modo per accogliere quanto in noi è stato del resto solo culturalmente rimosso, come la storia delle religioni del mondo classico ha ampiamente evidenziato e come fenomeni, per quanto decrepiti, come il tarantismo, di dionisiaca memoria, sembrano volerci ricordare a proposito della nostra eredità storica e biologica. La nostra è una cultura affermatasi moderna sulla base della normalizzazione della coscienza, come dice Lapassade (1980), sulla rimozione di Dioniso.

E dall'insegnamento che sappiamo trarre dalla riflessione su cosa ci è appartenuto prima della normalizzazione cattolica, che la considerazione del carattere di costruzione culturale del nostro stato di coscienza ordinario può diventare piena consapevolezza; e ciò non per proporre regressioni arcaiche compensatorie, ma per realizzare invece una più realistica conoscenza di quali siano le potenzialità effettive della nostra coscienza. Perché: <<la trance non è una semplice curiosità etnologica, un fenomeno marginale sopravvissuto in qualche società del terzo mondo, la trance è un modo di essere nel corpo" (Lapassade, 1980).

Le religioni estatiche, come sottolinea Peters (1981), sono nella storia dell'uomo la prima forma strutturata, con un contenuto simbolico e teorico e un repertorio di tecniche, di approccio alla sofferenza psichica, di utilizzo terapeutico di ASC e di sviluppo di potenzialità latenti, organizzate sulla base di una dimensione relazionale ecologica - nel senso più vasto del termine - fiduciosa.

È in virtù di tali contenuti, che lo studio etnopsicologico delle religioni estatiche aprendosi a una dimensione di pratica e di esperienza può <<operare affinché nuovi strati ed aree della corporeità possano venire integrati nel vissuto corporeo... fino al punto che, questi, come stenogrammi di un realtà transpersonale si rivelino capaci di offrire un accesso a significati, scenari, strutture abitualmente preclusi all'esperienza ordinaria>, (Venturini, 1989).

E se acquista la centralità della coscienza si rivela l'importanza della disciplina etnopsicologica per la psicologia tutta, in virtù del suo restituirci la ricchezza delle manifestazioni della coscienza, in una prospettiva ancora più ampia, che trascende ampiamente i confini della disciplina specialistica, è per l'uomo postmoderno, e per una sua crescita integrale e completa che la disciplina etnopsicologica diventa particolarmente significativa; perché, in definitiva, è a quest'ultimo che consegna la possibilità di riappropriarsi di quel pezzo ritrovato della propria esperienza che è la naturale tendenza ad esperire le molteplici forme non ordinarie della sua coscienza e l'autentica aspirazione a trascendere quei confini nei quali l'acculturazione ha frammentato l'esperienza.

 

Conclusioni

 

Dovrebbe a questo punto risultare più chiaro il senso della computazione di cui all'inizio e della complessa prospettiva interdisciplinare che sottende una adeguata individuazione della disciplina etnopsicologica. In ogni caso tale processo è ancora lontano dall'essere in qualche modo concluso e definitivo e anzi, caratteristica essenziale del modello presentato vuole essere l'attitudine a conservare una flessibilità e una plasticità sufficienti a ridefinirsi adeguatamente qualora nuove integrazioni lo rendano opportuno. Poiché è proprio da tale elasticità che può procedere la capacità di sapersi rimettere efficacemente in discussione, ovviando a quell'infelice esito, presente in tutte le teorie il cui scopo è l'autolegittimazione, che è il riduzionismo.

 

 

*  Psicologo

 

Note

 

1) Si rende innanzitutto necessaria una chiarificazione terminologica delle importanti implicazioni concettuali. Userò il termine coscienza e stato alterato di coscienza o anche l'abbreviatura inglese ASC in riferimento alla definizione sistemica di Tart (1976). Considererò gli ASC come il corrispettivo e come una adeguata concettualizzazione psicologica di ciò che gli antropologi chiamano estasi e trance.

2) Scrive Morin a proposito del concetto di ologramma che si trana <<forse di un principio cosmologico chiave. Esso concerne la complessità dell'organizzazione vivente, la complessità dell'organizzazione cerebrale e la complessità socioantropologica. Possiamo presentarlo così: il tutto è in un certo modo incluso nella parte che è inclusa nel tutto. L'organizzazione complessiva del tutto (holos) esige l'inscrizione (engramma) del tutto (ologramma) in ciascuna delle sue parti.>> (Morin, 1986).

 

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