Introduzione
La realtà della malattia in
fase avanzata e terminale si presenta complessa e multidimensionale; i
diversi aspetti, sia organici che psicologici, sono strettamente intrecciati
tra loro e vengono vissuti con molta intensità dal malato, dai familiari,
dal personale sanitario e dai volontari. In genere, gli aspetti organici
sono posti in primo piano "mentre la dimensione psicologica viene lasciata
in secondo piano e vissuta principalmente come "effetto collaterale" della
malattia" (Gamba, Nobili, in Di Mola, 1993 p. 201). Questa strategia di
intervento rischia di occultare situazioni che possono avere una rilevanza
cruciale nella comprensione delle dinamiche che accompagnano la malattia.
In altri termini, la malattia, nella sua inscindibile globalità,
è influenzata in modo significativo da dinamiche ed esperienze psicologiche
spesso sottovalutate o non sufficientemente note (op. cit.).
La mancata considerazione
degli aspetti psichici ed emozionali, nel corso delle diverse fasi della
"crisi" provocata dal tumore, rischia di amplificare i sentimenti di disagio,
solitudine e dolore non solo del malato e del suo contesto familiare, ma
anche dell'équipe che si occupa dell'assistenza medico - infermieristica
al malato oncologico.
Non è infrequente,
nel campo dell'assistenza domiciliare al malato terminale, assistere all'instaurarsi
di un vero e proprio circolo vizioso che, nonostante le migliori intenzioni
da parte di tutti i protagonisti, vede da una parte il malato (il più
delle volte tenuto all'oscuro delle sue reali condizioni) alla prese con
sentimenti di confusione, rabbia, solitudine destinati a non essere compresi
e contenuti, dall'altra i familiari, a loro volta travolti da una pluralità
di emozioni di non facile gestione ed espressione, e dall'altra ancora
il personale sanitario spesso impreparato a gestire, al di là degli
aspetti più propriamente medici, le forti emozioni suscitate dalla
malattia terminale. L'empasse che ne segue è segnata da incomprensioni,
conflitti, vissuti abbandonici, sensi di colpa, ecc.
In particolare, le
profonde emozioni attivate dall'assistenza di un malato terminale mettono
a dura prova le capacità del personale curante, non solo da un punto
di vista professionale ma anche e soprattutto sotto il profilo psicologico
ed emotivo. Il dover intrattenere rapporti con un "intero nucleo familiare
ed avere, dunque, in carico le emozioni di tutti i membri della famiglia
e non solo del malato, nonché i momenti di stanchezza psicologica
che implicano il rischio di soggiacere alla cosiddetta sindrome del burn-out"
(op. cit. p. 202), possono favorire un atteggiamento di asettico distacco
rispetto ad un coinvolgimento personale considerato eccessivo e pericoloso
per il proprio equilibrio.
Non appare, quindi,
sorprendente che l'attenzione da parte degli operatori venga posta, in
modo difensivo, prevalentemente sulla malattia e sugli aspetti tecnici
e concreti più che sulla persona del malato. Ciò rende la
malattia non solo il principale focus dell'intervento ma anche un'entità
astratta, indipendente, autonoma. In questo modo, ad esempio, i sintomi
ed il dolore che affliggono il malato e ne limitano la qualità della
vita, spesso non sono compresi nella loro globalità psicosomatica,
nella loro continua interazione con la personalità, le risorse e
i bisogni del paziente.
Alla luce di quanto
detto, appare evidente come la competenza psicologica sia importante: 1)
per poter cogliere le dinamiche operanti in diverse situazioni e contesti,
2) al fine di favorire "la formazione di atteggiamenti e stili di intervento
più adattativi e prevenire la confusione che può far seguito
ad eventuali interferenze non rilevate tra le esperienze dei curanti e
quelle degli utenti" (op. cit. p. 202). Inoltre, il lavoro dello psicologo
è orientato a sviluppare negli operatori e nelle famiglie la capacità
di saper contenere ed elaborare tensioni e sofferenze nel modo migliore
possibile.
L'intervento psicologico
può essere realizzato, con modalità distinte, in due direzioni:
da un lato nei confronti degli operatori sanitari, dall'altro direttamente
con i pazienti e con le loro famiglie.
La formazione
psicologica degli operatori, nel campo dell'assistenza domiciliare, deve
essere necessariamente continua in quanto frequentemente si presentano
momenti difficili (ad es. comunicare informazioni sull'andamento della
malattia sia al paziente che ai suoi familiari, prendere delle decisioni
riguardo al trattamento, suggerire alla famiglia i comportamenti più
utili, ecc.) che vanno moltiplicati per il numero di pazienti seguiti,
in quanto le situazioni dei diversi pazienti e dei loro nuclei familiari
non sono sovrapponibili.
La possibilità
di una formazione psicologica permanente degli operatori può: a)
permettere all'équipe di svolgere una funzione di "base sicura"
a cui la famiglia può appoggiarsi, al fine di poter raggiungere
un maggior adattamento alla malattia ed un miglioramento delle comunicazioni
intrafamiliari; b) favorire l'elaborazione ed il controllo delle dinamiche
psicologiche ed emotive degli operatori. Quest'ultimo, è forse il
compito più gravoso, sia qualitativamente che quantitativamente.
Infatti, gli operatori si trovano spesso soli ad affrontare l'ansia che
gli deriva dal confronto con la morte e con la sofferenza dell'altro, in
un continuo conflitto tra l'illusione di immortalità e l'evidenza
della finitudine, tra il proprio bisogno di ottemperare alla propria professione
ed il dover accettare la propria sconfitta" (Morasso et. al. 1988 p. 69).
Inoltre, il contatto quotidiano con malati che evocano l'immagine della
morte, con la sofferenza e la disperazione dei familiari che viene scaricata
sugli operatori, provoca usura, attenuazione dell'impegno, crisi depressive,
aggressività. Tutto ciò può provocare l'insorgenza
di dinamiche centrifughe, difficoltà di relazione personale e professionale
tra le diverse figure (medici, infermieri, assistenti sociali, volontari,
amministrativi) a discapito del lavoro di gruppo.
Lo strumento principale
a disposizione dello psicologo per raggiungere gli obiettivi delineati
è il lavoro di gruppo che ha lo scopo di far emergere il personale
vissuto psicologico, al fine di agevolarne l'analisi. L'esperienza di gruppo,
come luogo di riflessione e come spazio protetto di esplorazione della
propria esperienza emotiva è particolarmente utile per affrontare
le numerose sfumature del lavoro quotidiano di assistenza a malati molto
gravi. Il gruppo si caratterizza, inoltre, come "uno "spazio per pensare",
differente dallo spazio dell'agire quotidiano" (Gamba, Nobile, in op. cit.
p. 203).
Il volontario
è sicuramente la figura più atipica dell'équipe. Infatti
la varietà dei suoi compiti e l'intenso rapporto affettivo che spesso
si crea tra lui e il malato, fanno sì che sia difficilmente sostituibile
da altre figure professionali. Tuttavia, mentre il medico o l'infermiere
possono essere accettati con relativa facilità, talvolta diffidenze
e malintesi, uniti alla mancanza di un ruolo preciso, possono rendere arduo
il compito del volontario soprattutto nel momento della sua introduzione
nella famiglia. Egli necessita di una particolare protezione: infatti solitamente
non è preparato a confrontarsi con la morte e la malattia. Inoltre,
tra volontario e paziente è più facile che si instaurino
dei veri e propri rapporti di affetto, con inevitabili vissuti di lutto.
E' evidente, in tal senso, la necessità di fornire al volontario
una adeguata formazione e una periodica supervisione, che sia in grado
di contenere le difficoltà relazionali e personali a cui andrà
incontro nel suo rapporto sia con il paziente che con i familiari.
Naturalmente,
oltre al lavoro con l'équipe e con i volontari l'intervento dello
psicologo va indirizzato in favore del nucleo familiare, al fine di sostenere
le figure più prossime al malato.
La possibilità
per il malato di poter trascorrere gli ultimi mesi della sua vita nella
propria abitazione circondato dall'affetto dei familiari, sembra provocare
un minor livello di ansia, dolore e depressione. Tuttavia, per poter realizzare
concretamente una assistenza domiciliare continua è necessario che
la famiglia sia sufficientemente preparata a svolgere un compito che si
presenta irto di difficoltà. Infatti, se il malato è l'obiettivo
degli sforzi, la famiglia è il mezzo attraverso cui si concretizza
l'intervento di assistenza domiciliare.
Se vengono trascurate
sia le forze positive che alimentano le interazioni familiari, sia le difficoltà
ed i timori di cui la famiglia è portatrice si rischia un sostanziale
insuccesso dell'intervento assistenziale. E' necessario rendersi conto
che l'équipe non prende in carico solo il malato ma tutto il contesto
familiare con i suoi bisogni e le sue ansie. Non sempre, infatti, è
il malato ad avere maggior bisogno di sostegno ed aiuto psicologico.
Le difficoltà
di una famiglia nel gestire un malato terminale nascono dall'impatto con
la straordinarietà della situazione, che impone aspetti nuovi da
capire e da risolvere, e uno sconvolgimento della routine quotidiana. Molti
familiari sono costretti ad alterare le loro abitudini, saltano i riposi
e le ferie, non hanno più orari. A tutto ciò va aggiunto
il clima di sofferenza psicoaffettiva in cui la famiglia si muove.
Non dobbiamo dimenticare
che la malattia oncologica è un evento che inevitabilmente apre
una "crisi" nel sistema familiare alterando le normali dinamiche e relazioni
parentali. Le risorse, le modalità di funzionamento, in una parola
la forza e la coesione del sistema familiare, sono messe a dura prova.
Il modo con cui una famiglia reagisce e si confronta con lo stress intrapersonale
ed interpersonale, attivato da questa esperienza "limite", dipende in parte
dalle precedenti dinamiche familiari (livelli di comunicazione, grado di
coinvolgimento, funzionamento e coerenza) ed in parte dalla capacità
dell'équipe di offrire un reale sostegno e contenimento dei sentimenti
evocati e messi a nudo, sia dalla malattia che dall'assistenza domiciliare
continuativa.
Anche la famiglia,
come il malato, sperimenta, nel corso della malattia, tutta una serie di
emozioni. Sentimenti di paura, rabbia, impotenza, depressione, ansia sono
del tutto normali e comprensibili, sia nel paziente che nei suoi familiari.
Tuttavia, l'intensità dei sentimenti assume spesso un valore negativo
agli stessi occhi dei familiari spingendoli a reprimere, negare, anestetizzare
i propri e gli altrui vissuti emotivi. Questo controllo emozionale, si
traduce in un incremento del reciproco senso di solitudine che aumenta,
piuttosto che ridurre, la distanza emotiva all'interno della famiglia (Kübler-Ross,
1969).
Un ulteriore problema
evocato dalla malattia terminale riguarda l'elaborazione del lutto, sia
nel corso dell'assistenza (lutto anticipatorio) quando i segni della malattia
sono spesso tangibili e la prospettiva della morte, e quindi della perdita
della persona cara, è sempre presente, sia quando effettivamente
il paziente viene a mancare e la famiglia si trova a dover gestire la perdita.
E' questo un aspetto spesso sottovalutato, nonostante diverse ricerche
abbiano dimostrato la sostanziale vulnerabilità della persona in
lutto, per ciò che riguarda la salute psichica e fisica (Smith,
1982). In tal senso, appare ragionevole prevedere che l'aiuto fornito durante
una malattia terminale non sarà di beneficio soltanto nella situazione
immediata del morente e dei parenti stretti, ma avrà anche dei benefici
di lungo periodo, creando le condizioni per una successiva reazione di
lutto meno gravosa.
Tenendo conto di
questi diversi aspetti l'intervento dello psicologo può concretizzarsi
nella possibilità di offrire: a) sostegno e valorizzazione delle
risorse familiari; b) contenimento delle sofferenze e dello stress intrapersonale
ed interpersonale; c) creazione di uno spazio di comunicazione tra i familiari
e l'équipe, e tra i familiari ed il malato; d) ascolto ed informazione
rispetto alle decisioni da prendere in ordine ai diversi problemi che si
presentano durante tutto l'iter della malattia; e) aiuto nella fase dell'elaborazione
del lutto.
Nel corso dell'assistenza
domiciliare, la famiglia e l'équipe rappresentano due poli che,
nel momento in cui vengono in contatto, devono continuamente ridefinire
il proprio ruolo durante tutto l'iter assistenziale.
Questo intervento
ruota intorno ad un terzo polo, rappresentato dal malato terminale, che
si trova alle prese con la crisi più grande è più
importante di tutta la sua vita e che si differenzia da ogni altro paziente
per lo svilupparsi e l'aggravarsi di quella particolare sofferenza che
è stata definita come "dolore totale". In altri termini, "la vicinanza
della morte ed il precipitare delle condizioni fisiche indicano un progressivo
modificarsi di ogni connotazione personale: l'identità corporea,
il ruolo sociale, lo status economico, l'equilibrio psicofisico, la sfera
spirituale, il soddisfacimento dei bisogni primari" (Toscani, in Di Mola
op. cit. p. 166). Il malato terminale, inoltre, è anche un morente
e quindi ai bisogni del malato si aggiungono i bisogni del morente. Questi
è, dunque, il principale protagonista di un processo vitale complesso
che si svolge nel tempo e coinvolge in modo totale le diverse aree dell'esistenza.
In tal senso, l'intervento assistenziale va colto nella sua dimensione
globale ed olistica e deve necessariamente collocarsi al servizio della
soggettività del paziente, spostando l'attenzione dalla malattia
alla persona del malato ed ai suoi bisogni (Gentile, in Crocetti, 1992).
Collocare al centro
dell'intervento assistenziale la persona del malato, significa prendere
in considerazione i diritti inalienabili di ogni essere umano, riconoscendo,
quindi, nel paziente terminale: a) la sua dignità di persona ed
i problemi relativi al suo stato, nel pieno rispetto dei suoi diritti e
delle sue convinzioni etiche e/o religiose; b) i bisogni psicologici ed
emotivi che, tenendo conto delle differenze individuali, investono: la
certezza di non essere abbandonato, la sicurezza di ricevere le necessarie
cure mediche, la possibilità di essere considerato un soggetto in
grado di ricevere informazioni regolari, comprensibili e credibili, la
certezza di poter ottenere, accanto ad una assistenza sanitaria, la necessaria
attenzione sia in termini di ascolto che di presenza.
Il rispetto di questi
bisogni va considerato come parte integrante dell'intervento dell'équipe,
ma indubbiamente lo psicologo può, in modo più specifico,
accogliere e contenere l'espressione di queste esigenze.
E' importante sottolineare
come l'intervento dello psicologo debba sempre tenere conto di due aspetti
fondamentali: 1) evitare qualsiasi imposizione di un sostegno non gradito,
nel riconoscimento della fondamentale libertà da parte del sistema
familiare, nelle sue diverse componenti, di poter far richiesta o meno
di un aiuto psicologico; 2) tenere sotto controllo i propri bisogni e le
proprie dinamiche personali che, se non riconosciute, possono contribuire
a creare una interferenza nel dialogo tra il paziente e la famiglia. In
altri termini, riteniamo che lo psicologo non debba sostituirsi alle figure
più significative del paziente, cercando, in una sorta di relazione
esclusiva con il malato, di soddisfare i propri bisogni di protagonismo.
Lo psicologo, può eventualmente porsi come trait-union, mediatore
o facilitatore della relazione talvolta interrotta, a causa della "congiura
del silenzio" che spesso avvolge il malato, talvolta carente per via delle
difficoltà, sia del malato che dei familiari, nell'affrontare le
questioni sospese, i non detti, le gestalt incompiute (Leoni, 1992;
Morasso, 1998).
L'azione di facilitazione
e mediazione può contribuire ad aiutare pazienti e famiglie ad apprezzare,
pur nella drammaticità della situazione, le esperienze positive,
in termini di relazione e comunicazione, che è possibile sperimentare
quando si è o si vive con un malato grave. La malattia oncologica,
che possiamo considerare una esperienza di confine e di "verità",
può permettere ai diversi protagonisti di vivere ogni momento in
modo significativo, consentendo loro di accettare più facilmente
la propria situazione e, per quanto riguarda i malati, di aver meno timore
di lasciare la vita: "nessuno può preparare qualcun'altro alla morte;
è possibile però "preparare" alla vita e questa preparazione
consiste proprio nell'abituarsi a riempire il proprio tempo con comportamenti
umanamente validi" (Nobili, in Di Mola op. cit. p. 56).
Dopo aver preso
in considerazione le aree di intervento è necessario definire più
specificamente le modalità proprie di un approccio psicologico nel
campo dell'assistenza domiciliare ai malati oncologici terminali.
Per quanto riguarda
l'attività specifica con le famiglie e con i malati, l'attività
del servizio di psicologia si organizza a partire dal primo colloquio che
si svolge presso l'Associazione con i familiari del paziente. In questo
caso, oltre al colloquio con il medico è previsto un incontro con
lo psicologo che permetta di: a) raccogliere informazioni sulla storia,
organizzazione e dinamiche relazionali della famiglia; b) verificare la
presenza di problemi all'interno del nucleo familiare in grado di interferire
con l'assistenza domiciliare (inadeguatezza del nucleo familiare a gestire
l'assistenza, conflitti espliciti tra membri della famiglia, ecc.); c)
verificare la presenza di eventuali fattori di rischio a carico dei familiari
sia nel corso dell'assistenza che, in prospettiva, a seguito della morte
del paziente (problemi nelle relazioni familiari, presenza di problemi
psichici, rifiuto di confrontarsi con la malattia e la morte, ecc.). Queste
informazioni vengono riportate all'interno di una "scheda psicologica"
che viene successivamente allegata alla cartella clinica del paziente.
La scheda, progressivamente aggiornata, può essere consultata sia
dal personale sanitario che dai volontari.
A seguito del primo
colloquio con i familiari è prevista una visita domiciliare con
l'assistente sociale al fine di: a) verificare ed integrare le informazioni
raccolte durante il primo colloquio; b) stabilire un contatto con il malato;
c) stabilire un contatto con gli altri membri della famiglia non presenti
al colloquio; d) identificare la presenza di eventuali problemi non emersi
durante il colloquio.
Successivamente lo
psicologo valuta, in accordo con gli altri membri dell'equipe, le eventuali
aree problematiche a carico della famiglia e/o del malato al fine di poter
offrire, ove richiesto: 1) sostegno al nucleo familiare durante la malattia
ed eventualmente dopo la morte del paziente; 2) aiuto nel facilitare la
relazione e la comunicazione con il malato; 3) sostegno psicologico al
paziente.
L'esistenza di un
centro di ascolto telematico permette inoltre di fornire un counselling
telefonico.