L'assistenza domiciliare ai malati
terminali: il ruolo dello psicologo


Barbara Costantini, Diletta De Benedetto, Giampiero Morelli *

"INformazione Psicologia Psicoterapia Psichiatria", n° 36-37, gennaio-agosto 1999, pagg. 62-67, Roma





Introduzione


La realtà della malattia in fase avanzata e terminale si presenta complessa e multidimensionale; i diversi aspetti, sia organici che psicologici, sono strettamente intrecciati tra loro e vengono vissuti con molta intensità dal malato, dai familiari, dal personale sanitario e dai volontari. In genere, gli aspetti organici sono posti in primo piano "mentre la dimensione psicologica viene lasciata in secondo piano e vissuta principalmente come "effetto collaterale" della malattia" (Gamba, Nobili, in Di Mola, 1993 p. 201). Questa strategia di intervento rischia di occultare situazioni che possono avere una rilevanza cruciale nella comprensione delle dinamiche che accompagnano la malattia. In altri termini, la malattia, nella sua inscindibile globalità, è influenzata in modo significativo da dinamiche ed esperienze psicologiche spesso sottovalutate o non sufficientemente note (op. cit.).
    La mancata considerazione degli aspetti psichici ed emozionali, nel corso delle diverse fasi della "crisi" provocata dal tumore, rischia di amplificare i sentimenti di disagio, solitudine e dolore non solo del malato e del suo contesto familiare, ma anche dell'équipe che si occupa dell'assistenza medico - infermieristica al malato oncologico.
    Non è infrequente, nel campo dell'assistenza domiciliare al malato terminale, assistere all'instaurarsi di un vero e proprio circolo vizioso che, nonostante le migliori intenzioni da parte di tutti i protagonisti, vede da una parte il malato (il più delle volte tenuto all'oscuro delle sue reali condizioni) alla prese con sentimenti di confusione, rabbia, solitudine destinati a non essere compresi e contenuti, dall'altra i familiari, a loro volta travolti da una pluralità di emozioni di non facile gestione ed espressione, e dall'altra ancora il personale sanitario spesso impreparato a gestire, al di là degli aspetti più propriamente medici, le forti emozioni suscitate dalla malattia terminale. L'empasse che ne segue è segnata da incomprensioni, conflitti, vissuti abbandonici, sensi di colpa, ecc.
    In particolare, le profonde emozioni attivate dall'assistenza di un malato terminale mettono a dura prova le capacità del personale curante, non solo da un punto di vista professionale ma anche e soprattutto sotto il profilo psicologico ed emotivo. Il dover intrattenere rapporti con un "intero nucleo familiare ed avere, dunque, in carico le emozioni di tutti i membri della famiglia e non solo del malato, nonché i momenti di stanchezza psicologica che implicano il rischio di soggiacere alla cosiddetta sindrome del burn-out" (op. cit. p. 202), possono favorire un atteggiamento di asettico distacco rispetto ad un coinvolgimento personale considerato eccessivo e pericoloso per il proprio equilibrio.
    Non appare, quindi, sorprendente che l'attenzione da parte degli operatori venga posta, in modo difensivo, prevalentemente sulla malattia e sugli aspetti tecnici e concreti più che sulla persona del malato. Ciò rende la malattia non solo il principale focus dell'intervento ma anche un'entità astratta, indipendente, autonoma. In questo modo, ad esempio, i sintomi ed il dolore che affliggono il malato e ne limitano la qualità della vita, spesso non sono compresi nella loro globalità psicosomatica, nella loro continua interazione con la personalità, le risorse e i bisogni del paziente.
 

1) Il ruolo dello psicologo



    Alla luce di quanto detto, appare evidente come la competenza psicologica sia importante: 1) per poter cogliere le dinamiche operanti in diverse situazioni e contesti, 2) al fine di favorire "la formazione di atteggiamenti e stili di intervento più adattativi e prevenire la confusione che può far seguito ad eventuali interferenze non rilevate tra le esperienze dei curanti e quelle degli utenti" (op. cit. p. 202). Inoltre, il lavoro dello psicologo è orientato a sviluppare negli operatori e nelle famiglie la capacità di saper contenere ed elaborare tensioni e sofferenze nel modo migliore possibile.
    L'intervento psicologico può essere realizzato, con modalità distinte, in due direzioni: da un lato nei confronti degli operatori sanitari, dall'altro direttamente con i pazienti e con le loro famiglie.
 

1a) Formazione psicologica dell'équipe



    La formazione psicologica degli operatori, nel campo dell'assistenza domiciliare, deve essere necessariamente continua in quanto frequentemente si presentano momenti difficili (ad es. comunicare informazioni sull'andamento della malattia sia al paziente che ai suoi familiari, prendere delle decisioni riguardo al trattamento, suggerire alla famiglia i comportamenti più utili, ecc.) che vanno moltiplicati per il numero di pazienti seguiti, in quanto le situazioni dei diversi pazienti e dei loro nuclei familiari non sono sovrapponibili.
    La possibilità di una formazione psicologica permanente degli operatori può: a) permettere all'équipe di svolgere una funzione di "base sicura" a cui la famiglia può appoggiarsi, al fine di poter raggiungere un maggior adattamento alla malattia ed un miglioramento delle comunicazioni intrafamiliari; b) favorire l'elaborazione ed il controllo delle dinamiche psicologiche ed emotive degli operatori. Quest'ultimo, è forse il compito più gravoso, sia qualitativamente che quantitativamente. Infatti, gli operatori si trovano spesso soli ad affrontare l'ansia che gli deriva dal confronto con la morte e con la sofferenza dell'altro, in un continuo conflitto tra l'illusione di immortalità e l'evidenza della finitudine, tra il proprio bisogno di ottemperare alla propria professione ed il dover accettare la propria sconfitta" (Morasso et. al. 1988 p. 69). Inoltre, il contatto quotidiano con malati che evocano l'immagine della morte, con la sofferenza e la disperazione dei familiari che viene scaricata sugli operatori, provoca usura, attenuazione dell'impegno, crisi depressive, aggressività. Tutto ciò può provocare l'insorgenza di dinamiche centrifughe, difficoltà di relazione personale e professionale tra le diverse figure (medici, infermieri, assistenti sociali, volontari, amministrativi) a discapito del lavoro di gruppo.
    Lo strumento principale a disposizione dello psicologo per raggiungere gli obiettivi delineati è il lavoro di gruppo che ha lo scopo di far emergere il personale vissuto psicologico, al fine di agevolarne l'analisi. L'esperienza di gruppo, come luogo di riflessione e come spazio protetto di esplorazione della propria esperienza emotiva è particolarmente utile per affrontare le numerose sfumature del lavoro quotidiano di assistenza a malati molto gravi. Il gruppo si caratterizza, inoltre, come "uno "spazio per pensare", differente dallo spazio dell'agire quotidiano" (Gamba, Nobile, in op. cit. p. 203).
 

1b) Formazione e supervisione dei volontari



    Il volontario è sicuramente la figura più atipica dell'équipe. Infatti la varietà dei suoi compiti e l'intenso rapporto affettivo che spesso si crea tra lui e il malato, fanno sì che sia difficilmente sostituibile da altre figure professionali. Tuttavia, mentre il medico o l'infermiere possono essere accettati con relativa facilità, talvolta diffidenze e malintesi, uniti alla mancanza di un ruolo preciso, possono rendere arduo il compito del volontario soprattutto nel momento della sua introduzione nella famiglia. Egli necessita di una particolare protezione: infatti solitamente non è preparato a confrontarsi con la morte e la malattia. Inoltre, tra volontario e paziente è più facile che si instaurino dei veri e propri rapporti di affetto, con inevitabili vissuti di lutto. E' evidente, in tal senso, la necessità di fornire al volontario una adeguata formazione e una periodica supervisione, che sia in grado di contenere le difficoltà relazionali e personali a cui andrà incontro nel suo rapporto sia con il paziente che con i familiari.
 

1c) Sostegno diretto alla famiglia



    Naturalmente, oltre al lavoro con l'équipe e con i volontari l'intervento dello psicologo va indirizzato in favore del nucleo familiare, al fine di sostenere le figure più prossime al malato.
    La possibilità per il malato di poter trascorrere gli ultimi mesi della sua vita nella propria abitazione circondato dall'affetto dei familiari, sembra provocare un minor livello di ansia, dolore e depressione. Tuttavia, per poter realizzare concretamente una assistenza domiciliare continua è necessario che la famiglia sia sufficientemente preparata a svolgere un compito che si presenta irto di difficoltà. Infatti, se il malato è l'obiettivo degli sforzi, la famiglia è il mezzo attraverso cui si concretizza l'intervento di assistenza domiciliare.
    Se vengono trascurate sia le forze positive che alimentano le interazioni familiari, sia le difficoltà ed i timori di cui la famiglia è portatrice si rischia un sostanziale insuccesso dell'intervento assistenziale. E' necessario rendersi conto che l'équipe non prende in carico solo il malato ma tutto il contesto familiare con i suoi bisogni e le sue ansie. Non sempre, infatti, è il malato ad avere maggior bisogno di sostegno ed aiuto psicologico.
    Le difficoltà di una famiglia nel gestire un malato terminale nascono dall'impatto con la straordinarietà della situazione, che impone aspetti nuovi da capire e da risolvere, e uno sconvolgimento della routine quotidiana. Molti familiari sono costretti ad alterare le loro abitudini, saltano i riposi e le ferie, non hanno più orari. A tutto ciò va aggiunto il clima di sofferenza psicoaffettiva in cui la famiglia si muove.
    Non dobbiamo dimenticare che la malattia oncologica è un evento che inevitabilmente apre una "crisi" nel sistema familiare alterando le normali dinamiche e relazioni parentali. Le risorse, le modalità di funzionamento, in una parola la forza e la coesione del sistema familiare, sono messe a dura prova. Il modo con cui una famiglia reagisce e si confronta con lo stress intrapersonale ed interpersonale, attivato da questa esperienza "limite", dipende in parte dalle precedenti dinamiche familiari (livelli di comunicazione, grado di coinvolgimento, funzionamento e coerenza) ed in parte dalla capacità dell'équipe di offrire un reale sostegno e contenimento dei sentimenti evocati e messi a nudo, sia dalla malattia che dall'assistenza domiciliare continuativa.
    Anche la famiglia, come il malato, sperimenta, nel corso della malattia, tutta una serie di emozioni. Sentimenti di paura, rabbia, impotenza, depressione, ansia sono del tutto normali e comprensibili, sia nel paziente che nei suoi familiari. Tuttavia, l'intensità dei sentimenti assume spesso un valore negativo agli stessi occhi dei familiari spingendoli a reprimere, negare, anestetizzare i propri e gli altrui vissuti emotivi. Questo controllo emozionale, si traduce in un incremento del reciproco senso di solitudine che aumenta, piuttosto che ridurre, la distanza emotiva all'interno della famiglia (Kübler-Ross, 1969).
    Un ulteriore problema evocato dalla malattia terminale riguarda l'elaborazione del lutto, sia nel corso dell'assistenza (lutto anticipatorio) quando i segni della malattia sono spesso tangibili e la prospettiva della morte, e quindi della perdita della persona cara, è sempre presente, sia quando effettivamente il paziente viene a mancare e la famiglia si trova a dover gestire la perdita. E' questo un aspetto spesso sottovalutato, nonostante diverse ricerche abbiano dimostrato la sostanziale vulnerabilità della persona in lutto, per ciò che riguarda la salute psichica e fisica (Smith, 1982). In tal senso, appare ragionevole prevedere che l'aiuto fornito durante una malattia terminale non sarà di beneficio soltanto nella situazione immediata del morente e dei parenti stretti, ma avrà anche dei benefici di lungo periodo, creando le condizioni per una successiva reazione di lutto meno gravosa.
    Tenendo conto di questi diversi aspetti l'intervento dello psicologo può concretizzarsi nella possibilità di offrire: a) sostegno e valorizzazione delle risorse familiari; b) contenimento delle sofferenze e dello stress intrapersonale ed interpersonale; c) creazione di uno spazio di comunicazione tra i familiari e l'équipe, e tra i familiari ed il malato; d) ascolto ed informazione rispetto alle decisioni da prendere in ordine ai diversi problemi che si presentano durante tutto l'iter della malattia; e) aiuto nella fase dell'elaborazione del lutto.
 

1d) Sostegno diretto al malato terminale



    Nel corso dell'assistenza domiciliare, la famiglia e l'équipe rappresentano due poli che, nel momento in cui vengono in contatto, devono continuamente ridefinire il proprio ruolo durante tutto l'iter assistenziale.
    Questo intervento ruota intorno ad un terzo polo, rappresentato dal malato terminale, che si trova alle prese con la crisi più grande è più importante di tutta la sua vita e che si differenzia da ogni altro paziente per lo svilupparsi e l'aggravarsi di quella particolare sofferenza che è stata definita come "dolore totale". In altri termini, "la vicinanza della morte ed il precipitare delle condizioni fisiche indicano un progressivo modificarsi di ogni connotazione personale: l'identità corporea, il ruolo sociale, lo status economico, l'equilibrio psicofisico, la sfera spirituale, il soddisfacimento dei bisogni primari" (Toscani, in Di Mola op. cit. p. 166). Il malato terminale, inoltre, è anche un morente e quindi ai bisogni del malato si aggiungono i bisogni del morente. Questi è, dunque, il principale protagonista di un processo vitale complesso che si svolge nel tempo e coinvolge in modo totale le diverse aree dell'esistenza. In tal senso, l'intervento assistenziale va colto nella sua dimensione globale ed olistica e deve necessariamente collocarsi al servizio della soggettività del paziente, spostando l'attenzione dalla malattia alla persona del malato ed ai suoi bisogni (Gentile, in Crocetti, 1992).
    Collocare al centro dell'intervento assistenziale la persona del malato, significa prendere in considerazione i diritti inalienabili di ogni essere umano, riconoscendo, quindi, nel paziente terminale: a) la sua dignità di persona ed i problemi relativi al suo stato, nel pieno rispetto dei suoi diritti e delle sue convinzioni etiche e/o religiose; b) i bisogni psicologici ed emotivi che, tenendo conto delle differenze individuali, investono: la certezza di non essere abbandonato, la sicurezza di ricevere le necessarie cure mediche, la possibilità di essere considerato un soggetto in grado di ricevere informazioni regolari, comprensibili e credibili, la certezza di poter ottenere, accanto ad una assistenza sanitaria, la necessaria attenzione sia in termini di ascolto che di presenza.
    Il rispetto di questi bisogni va considerato come parte integrante dell'intervento dell'équipe, ma indubbiamente lo psicologo può, in modo più specifico, accogliere e contenere l'espressione di queste esigenze.
    E' importante sottolineare come l'intervento dello psicologo debba sempre tenere conto di due aspetti fondamentali: 1) evitare qualsiasi imposizione di un sostegno non gradito, nel riconoscimento della fondamentale libertà da parte del sistema familiare, nelle sue diverse componenti, di poter far richiesta o meno di un aiuto psicologico; 2) tenere sotto controllo i propri bisogni e le proprie dinamiche personali che, se non riconosciute, possono contribuire a creare una interferenza nel dialogo tra il paziente e la famiglia. In altri termini, riteniamo che lo psicologo non debba sostituirsi alle figure più significative del paziente, cercando, in una sorta di relazione esclusiva con il malato, di soddisfare i propri bisogni di protagonismo. Lo psicologo, può eventualmente porsi come trait-union, mediatore o facilitatore della relazione talvolta interrotta, a causa della "congiura del silenzio" che spesso avvolge il malato, talvolta carente per via delle difficoltà, sia del malato che dei familiari, nell'affrontare le questioni sospese, i non detti, le gestalt incompiute (Leoni, 1992; Morasso, 1998).
    L'azione di facilitazione e mediazione può contribuire ad aiutare pazienti e famiglie ad apprezzare, pur nella drammaticità della situazione, le esperienze positive, in termini di relazione e comunicazione, che è possibile sperimentare quando si è o si vive con un malato grave. La malattia oncologica, che possiamo considerare una esperienza di confine e di "verità", può permettere ai diversi protagonisti di vivere ogni momento in modo significativo, consentendo loro di accettare più facilmente la propria situazione e, per quanto riguarda i malati, di aver meno timore di lasciare la vita: "nessuno può preparare qualcun'altro alla morte; è possibile però "preparare" alla vita e questa preparazione consiste proprio nell'abituarsi a riempire il proprio tempo con comportamenti umanamente validi" (Nobili, in Di Mola op. cit. p. 56).
 

2) Modalità di intervento



    Dopo aver preso in considerazione le aree di intervento è necessario definire più specificamente le modalità proprie di un approccio psicologico nel campo dell'assistenza domiciliare ai malati oncologici terminali.
    Per quanto riguarda l'attività specifica con le famiglie e con i malati, l'attività del servizio di psicologia si organizza a partire dal primo colloquio che si svolge presso l'Associazione con i familiari del paziente. In questo caso, oltre al colloquio con il medico è previsto un incontro con lo psicologo che permetta di: a) raccogliere informazioni sulla storia, organizzazione e dinamiche relazionali della famiglia; b) verificare la presenza di problemi all'interno del nucleo familiare in grado di interferire con l'assistenza domiciliare (inadeguatezza del nucleo familiare a gestire l'assistenza, conflitti espliciti tra membri della famiglia, ecc.); c) verificare la presenza di eventuali fattori di rischio a carico dei familiari sia nel corso dell'assistenza che, in prospettiva, a seguito della morte del paziente (problemi nelle relazioni familiari, presenza di problemi psichici, rifiuto di confrontarsi con la malattia e la morte, ecc.). Queste informazioni vengono riportate all'interno di una "scheda psicologica" che viene successivamente allegata alla cartella clinica del paziente. La scheda, progressivamente aggiornata, può essere consultata sia dal personale sanitario che dai volontari.
    A seguito del primo colloquio con i familiari è prevista una visita domiciliare con l'assistente sociale al fine di: a) verificare ed integrare le informazioni raccolte durante il primo colloquio; b) stabilire un contatto con il malato; c) stabilire un contatto con gli altri membri della famiglia non presenti al colloquio; d) identificare la presenza di eventuali problemi non emersi durante il colloquio.
    Successivamente lo psicologo valuta, in accordo con gli altri membri dell'equipe, le eventuali aree problematiche a carico della famiglia e/o del malato al fine di poter offrire, ove richiesto: 1) sostegno al nucleo familiare durante la malattia ed eventualmente dopo la morte del paziente; 2) aiuto nel facilitare la relazione e la comunicazione con il malato; 3) sostegno psicologico al paziente.
    L'esistenza di un centro di ascolto telematico permette inoltre di fornire un counselling telefonico.
 
 

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Bibliografia
Gamba A., Nobili R., Lo psicologo, in in Di Mola G., (A cura di), Cure palliative. Approccio multidisciplinare alle melattie inguaribili, Masson, Milano, 1988
Gentili P., Ascolto dei bisogni ed intervento nelle cure ai portatori di cancro in fase terminale, in Crocetti G., Ascolto terapeutico e comunicazione in oncologia, Borla, Roma, 1992
Kübler-Ross E., (1969) La morte e il morire, tr. it. Cittadella Editrice, Assisi, 1979
Leoni M., L'assistenza psicosociale nella malattia inguaribile, Cittadella Ed., Assisi, 1992
Morasso G., (A cura di), Cancro: curare i bisogni del malato. L'assistenza in fase avanzata di malattia, Il Pensiero Scientifico Editore, Roma, 1998
Morasso G., Borreani C., Piu G., Il supporto psicologico da parte dell'equipe di assistenza, I Convegno Nazionale S.I.C.P. (Società Italiana Cure Palliative), Rapallo, 8 ottobre, 1988
Nobili R., Approccio psico-sociale: difficoltà, in Di Mola G., (A cura di), Cure palliative. Approccio multidisciplinare alle melattie inguaribili, Masson, Milano, 1988
Smith C., (1982) Vicino alla morte, tr. it. Edizioni Centro studi "M.H. Erickson", Trento, 1990
Toscani F., Medicina e malato terminale, in Di Mola G., (A cura di), Cure palliative. Approccio multidisciplinare alle melattie inguaribili, Masson, Milano, 1988