Natura e morale - un modello biopsicologico della reciprocità
Capitolo
II
Coevoluzione
bio-sociale:
una tesi di teoria integrata
Gli studiosi dell’azione
umana, che operano al di fuori delle scienze biologiche, si sentono spesso
disorientati di fronte all’entità del controllo biologico del comportamento e
tendono di conseguenza, a metterlo da parte o, in alternativa, a dargli
eccessiva importanza.
V.Reynolds, The biology of human action
Il tentativo, della sociobiologia[1],
di creare una maggiore articolazione fra scienze antroposociali e scienze
naturali pone le basi per una riorganizzazione del sapere e per una
ridefinizione dell'idea di soggetto umano.
L'essere umano, interpretato
talvolta a livello di individuo culturale, talvolta di individuo sociale,
talvolta di individuo biologico, presenta il problema di ristabilire ciò che in
questa dissociazione è assente, cioè la relazione individuo/società/specie come
permanente e simultanea (Morin,1983).
L'idea di uomo come essere trinitario, interpretato
attraverso l'articolazione individuo--specie--società,
implica che la scienza sociale postula
quella della natura, la quale a sua volta postuli quella sociale dando vita ad
un rapporto circolare volto a ricongiungere l'uomo "biologico" con
l'uomo "culturale".
La sociobiologia ritiene che l'agire umano, al pari di quello
animale, sia controllato dall'azione
dei geni e quindi non sia qualitativamente diverso.
Un approccio evoluzionistico
comporta un livello di analisi diverso da quello peculiare delle scienze
sociali. Convenzionalmente, in sociobiologia si possono distinguere due punti
di vista diversi nell'analisi del comportamento e più precisamente quello
dell'analisi immediata e quello dell'analisi ultima.
Analisi
immediata- Si occupa dei cosiddetti fattori causali (Hinde,
1970) (ormonali, neurali, stimoli specifici) presenti in un animale e causa di
un comportamento stereotipo. Un esempio di analisi immediata può essere la
spiegazione che viene data al comportamento materno sviluppato dalla femmina
del ratto sotto l'effetto di una iniezione di ossitocina (ormone ipofisario). Qualche minuto dopo la somministrazione il
ratto comincia a costruire il nido, oppure a proteggere piccoli ratti estranei posti accanto a lei
nella gabbia (Vincent, 1988). Questo tipo di esperimento vorrebbe dimostrare
come un comportamento universalmente diffuso come quello materno, comune alla
maggior parte degli animali più evoluti, dipenda da un meccanismo ormonale e per giunta quantificabile (è
interessante leggere i paragrafi dedicati dall'autore alle cause della paura e
dell'aggressività, identificate nella produzione da parte di un organismo di
due precisi ormoni: nor-adrenalina e adrenalina).
Analisi
ultima- Spiega
le cause di meccanismi comportamentali,
che spesso avvengono lontano dalla nascita, più complessi e adattati alle varie
situazioni, in cui entra in gioco l'apprendimento e il controllo volontario del
comportamento. Tale sistema di classificazione è definito di solito funzionale (Hinde, 1977) e si basa sui principi della teoria evolutiva e non
sull'analisi biochimica dei fenomeni. Il comportamento materno, sviluppato
dalla femmina di ratto, sarà spiegato
dall'analisi ultima in base alla sua storia evolutiva all'interno della
popolazione, al suo significato adattativo e alla idoneità complessiva
(adattamento globale socioparentale) (Barash, 1980b).
LA RELAZIONE GENE/COMPORTAMENTO
La sociobiologia ha tentato
di estendere le leggi dell'evoluzione somatica ai comportamenti. Il tentativo
di applicare i suoi modelli alle società umane ha suscitato parecchie
perplessità. Contro tale sviluppo sono state rivolte accuse di determinismo
biologico e di razzismo (Rose, Lewontin, Kamin, 1983).
I sociobiologi vengono
inoltre accusati di avere creato dei geni del comportamento, vere e proprie
unità comportamentali identificate su base puramente fenomenologica e poi
reificate in un genoma di pura invenzione (Andreoli, 1984). In particolare, la
critica è rivolta alle relazioni che in sociobiologia vengono stabilite fra le
unità dell'ereditarietà, i geni e il modo in cui queste unità divengono
fisicamente manifeste attraverso le caratteristiche esteriori, i fenotipi
(Gould, 1980). La maggior parte dell'interesse e delle polemiche suscitate
dalla sociobiologia si riferiscono alle applicazioni nello studio del
comportamento umano.
Oggetto degli studi
sociobiologici sono l'altruismo, la cooperazione, l'aggressività, con
particolare attenzione al ruolo svolto dalla selezione naturale, ritenuto il
mezzo principale dell'evoluzione di tali comportamenti.
Solitamente la disputa sulla
sociobiologia è incentrata sulla questione del rapporto eredità- ambiente.
Il problema, sorto in seguito agli
studi compiuti negli anni Sessanta e Settanta, consiste nello stabilire se le
cause del comportamento sociale umano possano essere specificatamente genetiche[2].
La sociobiologia:una falsa
scienza?
La sociobiologia nasce innestandosi
su una tradizione di ricerche antropo-biologiche. Si basa sui risultati delle
indagini di etologi come Carpenter (1940) e J.Goodall (1971), che si interessarono al comportamento
sociale degli scimpanzé, oppure su studi relativi all'evoluzione dell'altruismo
elaborate verso la metà degli anni Sessanta da studiosi come Hamilton (1964)
e Trivers (1971). La problematica di questi modelli scientifici è incentrata
sulla questione eredità-ambiente. La polemica anti-sociobiologica venne
favorita dall'idea che questo tipo di modello scientifico potesse offrire una giustificazione teoretico-scientifica
a ideologie di tipo reazionario e quindi legittimare l'esistenza di sistemi
politici basati sulla divisione in classi e sulla violenza (H.Rose & S.Rose,
1977). Affermare la possibilità di un controllo da parte dei geni del comportamento
umano poteva presupporre, secondo alcuni biologi della sinistra radicale (Beckwith,
1975) appartenenti al movimento SCIENZA PER IL POPOLO, la riproposizione di un vecchio modello
di darwinismo-sociale. In effetti simili pericoli possono essere colti in
opere non assimilabili direttamente ai tentativi sociobiologici, in cui si fa un uso arbitrario dell'analogia biologica, nei sistemi sociali (Boulding,1980).
In tali analisi si possono scorgere
veramente strumentalizzazioni a fini politici. Mi riferisco ad opere divenute
best-sellers negli anni Sessanta e Settanta come The territorial imperative[3] di
R.Ardrey (1966) e La scimmia nuda[4] di D. Morris (1974), che esprimono la contrapposizione fra l'uomo
inteso come entità biologica o come entità
totalmente culturale. Queste teorie sono esposte in opere divulgative in
cui si trasferiscono arbitrariamente le modalità comportamentali da
una specie all'altra, usando analogie funzionali come fossero omologie (criterio
di somiglianza fondato su di un nesso genetico). I fattori biologici vi appaiono
quali determinanti l'azione umana piuttosto che soluzioni integrate in cui
sia prevista l'interazione fra genotipo e fenotipo. Inoltre, non vi è spazio
per lo studio dell'encefalo e del ruolo da questo svolto nel comportamento.
Le tesi che principalmente ricorrono
nelle opere di questi autori sono due Robustelli (1982):
1) il processo dell'evoluzione garantisce la continuità comportamentale fra
l'uomo e gli altri animali, così come spiega la continuità anatomica e quella
fisiologica.
2) la continuità
comportamentale deve essere intesa essenzialmente come continuità di meccanismi
istintivi.
Entrambe queste tesi
assumono sviluppi estremistici, soprattutto nel campo del comportamento
sociale, manifestando a volte chiari intenti nel voler giustificare
"scientificamente" concetti quali il nazionalismo, il razzismo e la
violenza inter-etnica Eibesfeldt (1992).
Nel dibattito sociobiologico
svoltosi in Italia, vicino a queste posizioni, troviamo Acquaviva (1983), il
quale sostiene il carattere biogrammatico[5]
delle leggi, che reggono il funzionamento dei sistemi politici, i quali a suo
parere traggono origine dal desiderio di ogni individuo di far sopravvivere il
proprio patrimonio genetico e di assicurarsi così l’immortalità biologica.
Per Acquaviva (1983) il potere
e la dominanza sono mezzi per raggiungere questa immortalità, che passa attraverso
il sesso e la procreazione. Sesso
e potere sembrano così avere una comune origine biogrammatica, che ci fa comprendere
come la concorrenza sociale per l’autoaffermazione, il successo, il potere,
il prestigio, siano la traduzione culturale di bisogni genetici. Da una indagine
sui principali testi di biosociologia (Bischof 1979; Fox 1979) emerge la figura
dell’uomo come fortemente influenzato dal proprio corredo genetico. Intorno
a questo problema è nata un’aspra polemica contro la sociobiologia[6],
anche se le sue tesi non necessariamente possono essere accostabili a quelle
biosociologiche.
La sociobiologia è accusata
di presentare conclusioni di tipo politico sulla società umana, sotto forma di
teorie evolutive (Gould, 1980).
Nelle critiche espresse dalla SCIENZA PER IL POPOLO[7] è
presente un malinteso di fondo in quanto, pur essendo apertamente determinista,
la sociobiologia contesta un'interpretazione rigida del determinismo genetico. Per la sociobiologia,
il rapporto genotipo-fenotipo è puramente statistico.
Il sociobiologo, in base a
conoscenze geno-fenotipiche, cercherà di trarre previsioni da un punto di vista
statistico riguardo alla diffusione di un
determinato modello comportamentale all'interno di un gruppo sociale.
Una critica che, a mio parere, va invece rivolta alla maggior parte degli approcci sociobiologici è quella di
essere troppo semplicisti nel collegare il valore selettivo di ogni individuo
con una sola copia di geni. Secondo le ultime scoperte della genetica
(Jacquard, 1984), infatti, la fitness di un individuo dipenderebbe, invece, da
un gran numero di copie di geni, anziché da una sola. Il singolo gene influirebbe direttamente sull'individuo, ma
la sua azione dipenderebbe anche dai
geni ai quali si trova associato. Se un gene isolato è sfavorito, può,
contrariamente a quanto si pensi in base a certe affermazioni sociobiologiche,
diffondersi nella popolazione, purché sia associato, sullo stesso cromosoma, ad
un gene che è favorevole. L'idea di un gene per sé favorito, è falsa
in quanto sono le associazioni di geni ad affermarsi.
In sociobiologia si attribuisce grande importanza all'aspetto
culturale dell'uomo oltre che a quello genetico. L'oggetto dell'analisi
sociobiologica non è il comportamento innato, geneticamente determinato ed
immodificabile dall'esperienza (Lewontin, 1977), ma il comportamento, che implica apprendimento e possibilità di
migliorare le condizioni dell'organismo (Di Giacomo, 1982). L'unico processo
rigido riguardante i geni[8]
concerne la loro capacità di costruire copie di se stessi (Dawkins, 1979). I
geni non causano direttamente il comportamento (Gallino, 1984), ma governano
anzitutto la costruzione di macromolecole che costituiscono l'impalcatura di
tutti gli organi del vivente. E' dall' interazione di queste strutture
molecolari con l'ambiente che dipende il comportamento (Gallino, 1980; Ruffiè,
1984).
IL MODELLO COEVOLUTIVO COME SUPERAMENTO
DEL DETERMINISMO BIOLOGICO E CULTURALE
Le
influenze dell’ambiente risultano così essere indistricabili da quelle
genetiche[9].
Diventa allora un nodo insolubile stabilire se esista un primato dell’ambiente
sui geni o se siano piuttosto i geni a predisporre l’attivazione delle
influenze che l’ambiente può esercitare sull’individuo e sui geni stessi. La
soluzione a questa impasse viene fornita dai modelli della complessità, che
sottraggono l’individuo sia al determinismo dei geni sia a quello ambientale.
Come si vedrà tra breve, l’individuo per questi modelli è portatore di un repertorio di potenzialità che in modo
attivo tende ad attuare nell’ambiente in cui vive. Stabilire in che misura la
plasticità del comportamento umano sia condizionato dai geni o dall’ambiente è
impossibile. I modelli della complessità tendono invece a concepire l’essere
umano come il risultato di un’ interazione tra natura e cultura anche se non è
riducibile a nessuno di questi due poli concettuali. Siamo quindi in presenza
come sostiene Magnusson (1997) di una coazione tra predisposizioni genetiche e
opportunità ambientali.
All'interno del dibattito uomo-comportamento
è possibile enucleare tre diversi modelli esplicativi:
1) il primo modello prevede un'ipotesi genetica secondo la quale ogni espressione
comportamentale è geneticamente determinata. Tale prospettiva è comune alla
prima sociobologia (Hamilton, 1964)
2) il secondo modello prevede
un'ipotesi extra-genetica ed extra-biologica per cui ogni espressione comportamentale
è acquisita e non è geneticamente controllata. Secondo questa ipotesi,
sostenuta dal neopositivismo sociologico (Lazarsfeldt & Rosemberg, 1955),
sono i processi di apprendimento e l'ambiente a determinare il comportamento.
3) il terzo modello prevede
un'ipotesi integrata, che comprende un rapporto di complementarità fra gene
e cultura; per questo modello assume grande importanza la funzione dell'encefalo.
Quest'ultima ipotesi può essere spiegata attraverso l'immagine
del circuito, che comprende vari elementi e si chiude su se stesso (Gallino,
1984). Si tratta del circuito coevolutivo geno-culturale e comprende vari
livelli di osservazione: molecolare, cellulare, organica e popolazionale, dove
il concetto di popolazione comprende anche
lo studio della cultura e delle dinamiche bio-sociali che vi sono alla
base.
Una corretta spiegazione
della mente e della cultura secondo il terzo modello dipende da una teoria coevolutiva, in cui la relazione gene---cultura
permetta di comprendere in termini scientifici il circuito di causa-effetto.
Tale circuito procede dai geni alla struttura del cervello fino alle leggi
epigenetiche di sviluppo mentale, quindi presiede alla formazione della cultura
per poi ritornare all'evoluzione dei geni attraverso l'azione della selezione
naturale e di altri agenti evolutivi (Lumsdem & Wilson, 1984).
Una storia naturale del
comportamento è dunque legata all'ipotesi di modelli biologici compatibili con
il passaggio dall'innato all'acquisito e quindi capaci di ristrutturazioni cui
corrispondono funzioni nuove, non codificate dal gene. Ciò implica che ogni
disposizione ad un determinato comportamento non possa non essere compatibile
con il codice genetico, ma non vi possa essere contenuta come un datum (Gallino
, 1987).
L'ipotesi integrata,
centrata sull'importanza dell'encefalo, permette di sottrarsi ad una rigida
visione deterministica del comportamento, sia di tipo genetico che culturale.
Secondo questa ipotesi, la
strutturazione dell'encefalo dipende dal codice genetico; l'organizzazione
idonea alle funzioni innate rende però possibile, attraverso la plasticità
encefalica, il comportamento acquisito (Morin, 1984). In contrapposizione alla
separazione natura-cultura, determinismo-libertà, si fa strada l'ipotesi di una
complementarità tra patrimonio genetico e plasticità dell'encefalo.
Particolarmente importante si è rivelato il concetto di programma genetico, la
cui complessità pone le basi di un possibile grado di plasticità capace di
garantire all'individuo un comportamento relativamente "libero". Il
modello integrato implica il rifiuto di qualsivoglia concezione, che postuli
l'esistenza nell'uomo di istinti innati, dal momento che il comportamento umano
dipende da un programma aperto che si manifesta in un' interazione costante con
l'ambiente. Caratteristica di tale programma è proprio la non separazione tra
"interno" ed "esterno", cioè tra organismo ed ambiente (Di
Giacomo, 1982). L’idea di uomo che ne deriva è quella di un essere
plasticamente disposto in rapporto con l’ambiente extrasomatico, che include
anche la storia.
Si tratta di un circuito
feedback plastico, dalle multiple possibilità nei confronti dell’ambiente. La
presenza di un encefalo plastico e di circuiti encefalici plastici non possono
prescindere da questo rapporto con l’ambiente-storico, le cui stimolazioni per
l’encefalo cambiano da momento a momento.
DETERMINISMO E SITUAZIONI IPOTETICHE
Il superamento dell'antitesi gene-cultura si pone come
superamento dell'antitesi più generale tra scienze naturali e scienze umane in
un processo dialettico in cui l'una è la condizione di possibilità dell'altra
(Morin, 1983). Sulla stessa linea di pensiero è Prodi (1987) per il quale la
contrapposizione gene-cultura è del tutto fittizia. Per questo autore si
tratta di fenomeni assolutamente sequenziali e coordinati. Il problema è
invece, spesso, posto in modo inadeguato, contrapponendo le influenze
ambientali al determinismo genetico e
presentando due modi opposti di vedere lo sviluppo.
Libertà e costrizione non sono in contrasto, così come libertà e
determinazione: l'uomo è determinato geneticamente, come ogni altro essere, ma
tale determinazione comporta in se stessa la fisiologia della scelta ipotetica,
cioè una condizione di libertà. Non esistono i geni della libertà, ma i geni di
quella complessissima situazione funzionale-strutturale inerente alla
conoscenza astratta che costituisce la libertà. (Prodi, 1987 p. 48)
L'uomo è un essere determinato
geneticamente, ma questa sua determinazione è volta a produrre le SITUAZIONI
IPOTETICHE[10], le quali sono una determinazione alla
libertà. Ciò è reso possibile grazie alla plasticità[11] della struttura
encefalica, che permette all'essere umano di adeguarsi alle diverse soluzioni
presentate dall'ambiente. Di fatto viene affermata la possibilità da parte
dell'animale-uomo di determinarsi sempre più come singolo irrepetibile all'interno
di una specie. La plasticità encefalica implica l’esistenza di un encefalo
in relazione dialettica con l’ambiente, in grado di trasformarsi con l’esperienza
e di creare cultura. La biologia dell’encefalo plastico è una biologia del
non determinato e quindi del possibile e della creatività Andreoli (1984).
Questo modello di ispirazione strettamente biologica nega quindi ogni istanza
deterministico/riduzionista volgendo l’attenzione ad un encefalo, che si attiva
e funziona nell’incontro con l’ambiente. E’ l’encefalo dell’acquisito e quindi
del variabile e del non previsto.
Ne segue che il
comportamento, legato all’encefalo plastico, è modificabile e non geneticamente
determinato, in quanto la sua strutturazione è di natura storica, cioè legata
all’esperienza e quindi all’incontro tra individuo e ambiente.
RAPPORTI GENOTIPO-FENOTIPO
Basandosi sulla teoria dei
sistemi, Morin (1987) è sulla stessa linea della terza ipotesi e il suo modello
bio-sociale consente di superare la disputa tra innatisti e acquisizionisti,
proponendo una soluzione che è comune anche agli ultimi sviluppi del pensiero
sociobiologico.
L'autonomia del vivente
comporta due livelli inseparabili ma distinguibili: il livello fenotipico, che
consiste nell'esistenza individuale inserita in un ambiente e il livello
genotipico, che esprime un processo trans-individuale generante individui.
Questi due livelli[12],
secondo l'interpretazione di Morin (1987; 1989), sono due livelli di
organizzazione e ciò implica che l'autonomia del vivente sia un'autonomia di
organizzazione a due livelli.
Il genotipo è il patrimonio
ereditario inserito nei geni che un individuo riceve dai suoi genitori, mentre
il fenotipo corrisponde all'espressione dei tratti ereditari di un individuo,
in funzione delle condizioni e delle circostanze della sua ontogenesi in un
ambiente dato. Il fenotipo è, quindi, un'entità complessa, risultato delle
interazioni tra eredità ed ambiente e perciò non può essere considerato una
rappresentazione esatta del genotipo (Mayr, 1990). Fanno parte del genotipo la
memoria informazionale inserita nel DNA, il mantenimento delle invarianze
ereditarie, la duplicazione riproduttrice, il dispositivo che genera le decisioni e le istruzioni per il
macchinario cellulare. Sul versante fenotipico si hanno le attività con l'ambiente,
gli scambi, il metabolismo, l'omeostasi, la reazione, il comportamento.
Genotipo e fenotipo, non rappresentano due entità con esistenza autonoma e
definita, ma vengono assunti come due poli concettuali, i quali presiedono alle
attività del vivente.
IL MODELLO CIBERNETICO
Le teorie
coevolutive rappresentano il tentativo di legare due poli concettuali (genotipo-fenotipo)
altrimenti destinati alla separazione. Tale separazione, nel corso della storia,
ha dato spesso vita ad un singolare duello tra ciò che si può definire un
determinismo biologico ed un determinismo culturale-ambientale[13]
(Manghi, 1984). Il vivente viene interpretato come risultato di un processo
auto--organizzatore la cui unità è costituita dall'unione geno-fenomenica.
L'inseparabilità di genotipo e fenotipo va concepita non soltanto nell'interpretazione
e nell'interdipendenza, ma anche nella totalità dinamica di un processo ricorsivo
in cui i prodotti organizzati sono necessari alla ricostruzione e alle operazioni
di questa stessa organizzazione e quindi organizzanti (Lerner, 1972). In questo
processo l'organizzato (fenotipo) contribuisce necessariamente all'organizzazione
del suo organizzatore (genotipo). L'insieme costituisce ciò che Morin (1987)
definisce Auto-Geno-Feno-Organizzazione, nella quale il generato è necessario
alla rigenerazione del generante. Non si dovrà quindi concepire uno schema
lineare del tipo Genotipo-Fenotipo, ma uno schema in cui il fenotipo nel corso
del tempo e delle generazioni retroagisca sul genotipo. E' necessario inoltre
ampliare tale schema, includendovi il
concetto di ambiente costituendo una relazione
Genotipo---Fenotipo----Ambiente
in cui ciascuno dei termini partecipi alla rigenerazione degli
altri. Il vivente quindi è interpretato come il prodotto di questa doppia
dipendenza del genotipo nei confronti
del fenotipo e del fenotipo nei confronti del genotipo. La dialettica di questo
doppio sviluppo ne comporta un terzo, quello della società/ambiente. Il modello
coevolutivo rovescia da un punto di vista concettuale il rapporto
innato/acquisito, dal momento che lo sviluppo di una disposizione ad acquisire
è inseparabile dallo sviluppo di una organizzazione cerebrale innata. Geni e
cultura per i modelli coevolutivi sono indissolubilmente connessi, perciò
questo passaggio ci permette di sfuggire alle mutilazioni e agli equivoci che
derivano dal ritenerli disgiunti.
Lo schema proposto da
J.Lumsdem e E.O.Wilson (1984) ne "Il Fuoco Di Prometeo" è
esplicativo:
1) i geni impongono le leggi
di sviluppo (leggi epigenetiche) mediante le quali viene costruita la mente;
2) la mente cresce
assorbendo parte della cultura già esistente;
3) la cultura è ricreata di
nuovo ad ogni generazione mediante la somma delle innovazioni e delle decisioni
di tutti i membri della società;
4) alcuni individui
possiedono leggi epigenetiche che li rendono in grado di sopravvivere e di
riprodursi meglio di altri individui nella cultura contemporanea;
5) le leggi epigenetiche più
competitive si diffondono nella popolazione, insieme ai geni che le codificano.
In altre parole la popolazione si evolve geneticamente.
La cultura è creata e
modellata da processi biologici, mentre, contemporaneamente, i processi
biologici sono alterati in risposta al mutamento culturale[14].
Secondo le teorie coevolutive la cultura diventa il modo primario dell'uomo per
raggiungere il successo riproduttivo e i particolari sistemi socioculturali
rappresentano il perfezionamento di un comportamento, di un pensiero e di un
modo di sentire che contribuiscono alla sopravvivenza e alla riproduzione dei
gruppi sociali (Remotti, 1985). Queste ipotesi ci mostrano come, per gran parte
dei sociobiologi, le leggi epigenetiche selezionino comportamenti, che a loro
volta retroagiscono sulle medesime rafforzandole, oppure eliminandole. Siamo in
presenza di un sistema di pensiero che prevede un processo ricorsivo che
procede dal gene alla struttura encefalica, alla cultura e, quindi, la
retroazione di questa sul primo.
La cultura assume il potere
di incidere sulla eredità genetica fino a trasformarla. Il maggior successo di
certe modalità comportamentali rende possibile che le leggi epigenetiche
sottostanti e i geni che le determinano si diffondano nella popolazione.
UNA NUOVA CLASSE DI REPLICATORI
Secondo queste teorie, l'evoluzione genetica procede in modo tale
che le future generazioni siano pronte a sviluppare quelle forme di pensiero e
di comportamento che hanno assicurato il loro successo nel corso dell'
evoluzione. La cultura, in questo modo, agirebbe come un rapido fattore di
mutazione modificando nel corso delle generazioni le leggi epigenetiche.
Il superamento di uno schema
determinista del tipo Gene-Comportamento e l'introduzione di un termine medio
come l'encefalo fa sì che venga proposta una nozione di cultura descritta come
aggregato di molecole "colonizzatrici" della mente, i cultur-geni
(Lumsdem & Wilson, 1981)[15] capaci di colonizzare le menti, sia pure in
modo non permanente (sono infatti soggetti all'estinzione per disuso o per il
deteriorarsi della memoria). Nel circuito coevolutivo così attivato fra geni,
mente e cultura, la diffusione di nuovi modelli culturali induce mutamenti nella distribuzione di
frequenza dei geni nella popolazione e di conseguenza mutamenti nelle regole
epigenetiche (comunque dotate di una componente genetica) che formano la mente
degli organismi individuali (Manghi, 1984). Come si può osservare si passa dal
livello cellulare al livello organico e dal livello dei processi epigenetici a
quello popolazionale, il che significa che i processi epigenetici possono
produrre un'acquisizione differenziale
di tratti culturali. In altri termini: in una stessa popolazione, secondo le
generazioni, si diffondono differenti tratti di cultura perché i processi epigenetici
rendono più probabile che si trattengano
certi tratti culturali e meno probabile che se ne fissino altri (Gallino, 1984). La trasmissione
culturale copia quella genetica ed ha nel cultur-gene l'unità di memoria o
imitazione dell'evoluzione culturale.
I cultur-geni rappresentano
una nuova classe di replicatori: i replicatori culturali, micro-tratti di
cultura, che passano da una mente all'altra, riproducendosi uguali in ciascuna
e dando origine a combinazioni infinitamente variabili.
Essi, secondo queste teorie,
si evolvono per sopravvivenza
differenziale e al pari dei geni motivano i loro portatori a comportarsi in
modo tale da accrescere le loro probabilità di sopravvivenza. Per questi
studiosi la comprensione dell'uomo moderno dipende dallo studio della selezione
operata per via cultur-genica piuttosto che genica. Un cultur-gene dovrebbe essere considerato
un'unità di informazione presente nel cervello, avente una struttura definita,
realizzata in qualsiasi mezzo fisico venga usato dal cervello per immagazzinare
informazioni. Gli effetti fenotipici di un cultur-gene possono avere forma di
parole, musica, immagini visive, abiti alla moda, mimica facciale e
gesticolamento o possono essere identificate
nell'abilità della cincia ad aprire le bottiglie di latta (Timbergen,
1969) o dei macachi giapponesi nel pulire il grano (Wilson, 1979). Tale
concetto può essere considerato lamarchiano in quanto la trasmissione delle
informazioni, in questo caso, non avviene solo per selezione naturale, ma si
può dire che vi sia anche una trasmissione dei caratteri acquisiti da una
generazione a quella successiva per via culturale.
LA RETROAZIONE ANTROPO-SOCIALE
Il successo di sopravvivenza
di un cultur gene dipenderà in maniera critica dall'ambiente sociale e
biologico, mentre questo ambiente sarà certamente influenzato dalla natura
genetica della popolazione e dai cultur geni presenti nel pool cultur genico.
Allo stesso modo ogni successo nella replicazione di un cultur gene sarà
determinato dalla sua compatibilità con l'ambiente esistente.
L'acquisizione di
un'identità culturale comprende una componente biologica.
Tali circuiti biologici
vengono attivati da istruzioni culturali, in modo che se le istruzioni
culturali non arrivano nella forma e nel momento appropriati (in particolare in
certe fasi dello sviluppo ontogenetico dell'organismo), ne seguono danni più o
meno irreparabili (ad esempio l' incapacità di recepire il linguaggio). Il
pericolo di un ragionamento come questo consiste nella possibilità di concepire il cultur gene al
pari di un gene di nuovo tipo, in grado di imporsi all'uomo e di influenzarne
il comportamento in modo non dissimile da quello dei geni negli altri animali.
L'errore da evitare è quello di considerare l'encefalo una struttura passiva la
cui attivazione dipende da istruzioni culturali provenienti dall'esterno.
".....le istruzioni non sono da vedere soltanto come parti che
dall'esterno vengono immesse in questi circuiti al fine di stabilizzarli, ma
sono anche delle rappresentazioni che emergono dallo stesso sistema nervoso
centrale, sono dei simboli delle rappresentazioni simboliche che la
neocorteccia forma sotto l'impulso dei sistemi sottostanti" (Gallino,
p.110 1987)
Esiste quindi una mutua
interazione fra genotipo e fenotipo[16],
che sembrerebbe ridurre il timore e la diffidenza nei confronti degli studi
sociobiologici. Come ogni azione che coinvolge il vivente, anche quella umana è
geneticamente condizionata, ma non geneticamente prodotta. E' la retroazione
antroposociale che provoca a sua volta una determinazione sui geni. Si verifica
l'acquisizione della mente/encefalo e dell'organizzazione socio-culturale di un
potere di retroazione sulla base genetica dell'organismo.
Un simile modello rende
possibile il passaggio da una visione organicista ad una di tipo
organizzazionista delle società umane ed animali (Andreoli, 1980) in cui è
attribuita grande importanza al sistema nervoso e all'encefalo, i quali
renderebbero possibile una notevole autonomia di comportamento.
Il programma genetico non
deriva da una sfera a noi inacessibile ed oscura, bensì da un processo di
auto-organizzazione interna e richiede per la sua produzione e riproduzione gli
stessi elementi che produce. Un simile modello permette di sottrarsi
all'alternativa fra innatismo ed acquisizionismo in favore di una visione che
sostenga la complementarietà delle due componenti.
E' il caso in cui:
Più innato si ha, maggiore è la possibilità di acquisizione, ma a
condizione di precisare che solo una forte competenza cerebrale (innata)
procura forti attitudini ad acquisire (Morin, p.70 1989)
Con il modello coevolutivo
la dialogica innato/acquisito si arrichisce di una terza componente: il
"costruito", risultato dell'interazione fra l'apparato conoscente,
portatore del già conosciuto (gli schemi innati, le acquisizioni memorizzate) e
l'ambiente conoscibile (Morin, 1989).
DARWINISMO SINAPTICO
Ciò significa che la
conoscenza cerebrale necessita degli stimoli ambientali per divenire operante e
svilupparsi. Un esempio esplicativo può essere quello del gatto e dello
scimmiotto neonati, ai quali viene suturata una pupilla per un periodo di tre
mesi. Essi rimarranno per sempre ciechi da quell'occhio, a dimostrazione che la
disposizione ad apprendere è destinata a rimanere sterile e a perdersi senza
stimoli provenienti dall'ambiente[17].
Ogni sistema vivente interagisce con un determinato ambiente. Se il sistema è
troppo rigido e riproduce con una fedeltà assoluta non può
adattarsi ad un contesto mutevole, mentre se è troppo fluido non può riprodursi in modo stabile.
Scartata dunque un'ipotesi
di determinismo genetico assoluto, viene proposta una soluzione basata
sull'importanza del sistema nervoso centrale; si potrebbe quindi parlare come
sostiene Prodi (1987) di
darwinismo sinaptico[18]
consistente nella selezione operata dagli stimoli ambientali sui circuiti
sinaptici presenti nell'encefalo. Questo ragionamento parte dalla possibilità
che vi sia un numero esuberante di sinapsi presenti nel cervello e che,
confrontate con le loro funzioni e messe alla prova dall'esercizio, rimangano
solo le più convenienti con la creazione di certi circuiti e non di altri. In
base al tipo di stabilizzazione delle sinapsi e di organizzazione delle reti
neuronali variano le capacità percettive come la capacità di distinguere certe
differenze tra onde sonore e onde elettromagnetiche (Gallino, 1984) e variano
anche le capacità di apprendimento di tratti culturali differenti[19].
A queste differenze sono collegate
abilità molto diverse tra gli individui come un raffinato orecchio musicale, o
una spiccata abilità matematica.
Per concludere, la capacità
di determinazione ontogenetico-epigenetica non è per nulla in opposizione a
quella genetica. La capacità ontogenetica gioca entro quei limiti che le sono
consentiti dallo schema genetico. Quest'ultimo stabilisce in modo definitivo il
quadro di partenza, sul quale l'ontogenesi lavora mediante processi
epigenetici.
In questo caso si parla di
regolazione o adattamento con il metodo indiretto, poiché il genotipo non
esercita pressioni sul fenotipo, ma lo pone nelle condizioni di formare il
proprio adattamento guidato dall'ambiente.
CONCLUSIONI
E’
dunque possibile una transazione fra il livello biologico e quello culturale?
L’approccio
utilizzato richiede essenzialmente la capacità intellettuale di riconoscere
l’esistenza di universali propri della natura umana indipendenti dalla cultura
e al tempo stesso di rifiutare le arbitrarie semplificazioni del determinismo
biologico.
Si
tratta invece di accettare il fatto che la conoscenza di determinati vincoli
genetici è necessaria non per una loro legittimazione, ma al contrario per
potere migliorare le nostre modalità di organizzazione e relazione.
Il
paradigma sociobiologico alla luce degli ultimi sviluppi teorici, che prevedono
l’utilizzo del concetto di coevoluzione sembra indicare la soluzione per
interpretare e spiegare la simultanea evoluzione bio-culturale superando la
dicotomia fra i due sistemi. Lo studio delle tappe dal genetico al culturale
avviene attraverso l’analisi dell’encefalo, della mente, delle diversità
ecologiche e culturali.
I modelli coevolutivi
proposti dagli ultimi sviluppi del pensiero sociobiologico, a mio parere,
offrono la possibilità di acquisire un metodo di indagine più adeguato per lo
studio dei fenomeni sociali animali ed umani. La cultura e il comportamento,
interpretati come espressioni fenotipiche, perdono ogni significato di tipo
extra-biologico, ma al tempo stesso si sottraggono alle insidie di un
determinismo genetico, tipico dell'etologismo dei primi anni sessanta.
Si rende necessaria la
creazione di un ponte fra le discipline umanistiche e quelle naturalistiche,
che permetta una visione sintetica della storia dell'uomo indicando la non
conflittualità fra l'idea della natura animale dell'uomo e la sua unicità di
animale culturale[20].
Tutta la storia dell'uomo, quindi, attraverso i modelli coevolutivi può essere
interpretata come una storia di adattamento filogenetico all'ambiente, di
rapporto dialettico tra sistemi biologici ed ambiente
extrasomatico-storico.
[1] La sociobiologia è un tentativo di spiegare in termini biologici aspetti del comportamento umano, tradizionalmente oggetto di studio delle scienze umane. Essa rappresenta una delle più interessanti provocazioni degli ultimi anni. Un notevole contributo alla ripresa del rapporto natura/cultura è stato fornito dalla controversa opera di E.O.Wilson(1979), Sociobiologia: la nuova sintesi, Zanichelli, nella quale si assiste ad uno studio comparato tra comportamenti animali ed umani, quali l’altruismo o l’aggressività, giungendo ad affermare che tra comportamenti animali e comportamenti umani esiste una differenza quantitativa e non qualitativa.
[2] Questa affermazione implica la seguente domanda: il controllo genetico sul comportamento, in quale misura compromette il libero arbitrio?
[3] In questo libro si sostiene che l’istinto territoriale è una forza altrettanto potente dell’impulso sessuale e di quello materno. Il punto cruciale dell’argomentazione di Ardrey riguarda il problema della continuità tra comportamenti territoriali animali ed umani.
[4] Nel libro di Morris l’uomo è concepito fondamentalmente in un sistema gerarchico in cui difende, o perde il proprio stato, il territorio della famiglia e quello del gruppo
[5] Con il termine biogrammatica si intende l’insieme delle facoltà e delle potenzialità innate, che sono alla base delle nostre interazioni, relazioni e istituzioni sociali. L’organismo umano viene interpretato come un calcolatore, programmato in un modo particolare, acquisito per selezione naturale. Questi studi partono dal presupposto che, sebbene l’uomo abbia sviluppato un proprio mondo sociale, egli è comunque vicino alle altre forme di vita animali, in particolare dei primati. Quindi continua e continuerà ad essere un essere organico, anche se capace di costruire e vivere all’interno di un mondo di idee. Il problema conseguente a queste riflessioni è: fino a che punto questo aspetto organico della natura umana ne determina il comportamento e perfino le sue strutture sociali?
[6] La sociobiologia, pur proponendo in massima parte modelli integrati di comportamento (coevoluzione geno-culturale) è stata identificata dal mondo accademico di sinistra come una proposta biosociologica e quindi reazionaria, celante il tentativo di legittimare lo status-quo, poiché se le organizzazioni sociali umane sono la diretta conseguenza dell’azione genotipica, l’azione dell’uomo verrebbe a perdere la sua libertà.
[7] Secondo gli esponenti della Scienza per il Popolo la sociobiologia rischierebbe di diventare un’arma molto potente nelle mani di ideologi favorevoli alla difesa di regimi politici totalitari. Inoltre l’affermazione, secondo la quale un’organizzazione sociale geneticamente determinata rappresenta un prodotto della selezione naturale avrebbe come conseguenza immediata il pensiero che ogni forma di società rappresenti l’optimum in quanto adattiva a quel particolare ambiente. L’accusa più comune che viene rivolta alla sociobiologia è quella di presentare conclusioni di tipo politico sulla società umana, sotto forma di teorie evolutive come fa notare Gould (1980). La conferma di ciò secondo i suoi detrattori la si avrebbe nell’argomentazione filosofica, riguardo all’esistenza di universali sociali umani come l’aggressività, la religione, il territorialismo, la xenofobia, la guerra, l’altruismo, l’omosessualità, plasmati dall’evoluzione naturale nel corso dell’evoluzione biologica dell’uomo.
“Nel Candido di Voltaire il filosofo dott. Pangloss insiste nel sostenere che questo è il migliore dei mondi possibile; la sociobiologia è il pensiero di Pangloss reso scientifico dall’autorevolezza di Darwin” (Rose, Lewontin e Kamin, 1983 p. 242).
[8] A questo punto è utile dire che esistono almeno due tipi fondamentali di geni: i geni strutturali, cui si riferiscono la maggior parte degli studi di genetica ed i geni regolatori. La funzione dei primi sta nel controllare la sintesi delle proteine, dirigendo il montaggio in sequenza degli amminoacidi. I secondi stabiliscono i tempi di attivazione e disattivazione dei geni strutturali e la velocità con cui questi controllano la sintesi proteica. Simile meccanismo ha grande importanza per lo studio della relazione gene-comportamento poiché, mentre i geni strutturali appaiono insensibili alle informazioni provenienti dall’ambiente, i geni regolatori collegano quest’ultimo con l’organismo con effetti rilevanti durante lo sviluppo stesso.
[9] L’emergere delle capacità comportamentali nei mammiferi non è stata raggiunta solamente tramite accumulo dei geni o materiali genetici. Lo sviluppo delle capacità comportamentali dipende dal modo in cui i geni e i loro prodotti interagiscono, dal tempismo delle loro interazioni e dagli ambienti in cui interagiscono. Quindi, anche se assumiamo che la selezione può operare su qualcosa, in modo che ci sia qualche prodotto genetico che appare regolarmente e in modo affidabile entro la fine della fase di sviluppo nel nostro ciclo biologico idealizzato, il processo dell’emersione dello sviluppo non è un semplice effetto genetico.
[10] L’organismo umano, e quindi anche la struttura encefalica, è il risultato di una sequenza meccanica (contenuta nel genoma), che si realizza progressivamente attraverso serie di operazioni chimiche stabilite durante l’ontogensi. Vi è un meccanismo rigido, che inesorabilmente porta alla formazione del corpo umano con i diversi tessuti e strutture e quindi anche all’encefalo. Ciò tuttavia non esclude che alcune delle strutture così formatesi abbiano una capacità plastica, per cui in relazione con l’ambiente extragenetico ed extrasomatico possono essere organizzate secondo modalità che non sono geneticamente prestabilite.
[11] Il termine plasticità attribuito all’encefalo risale al periodo dello studio delle aree cerebrali e della loro localizzazione a mappe delle sue funzioni. Quando, a seguito di una lesione, in una specifica area, ne seguiva la perdita della funzione corrispondente, si poteva notare la ripresa (parziale) della stessa funzione, dovuta ad un’attivazione dell’area corrispondente controlaterale, cioè dell’emisfero non leso.
Più recentemente per plasticità si intende la capacità dell’encefalo di formare nuovi circuiti, utilizzando i neuroni già disponibili, che si collegano mediante nuove sinapsi, o l’attivazione di sinapsi a riposo. La plasticità è dunque da intendersi in senso neurochimico, come la possibilità di costituzione di nuove sinapsi e la loro attivazione attraverso i neuromediatori. In senso neurofisiologico è da intendersi come la formazione di circuiti neuronali (insieme di più neuroni collegati) a cui corrispondono nuove funzioni. L’acquisizione del concetto di encefalo plastico ha permesso di ipotizzare un modello esplicativo dell’uomo senza la necessità di ricorrere ai dualismi e ai riduzionismi del passato. Nell’ambito di una storia naturale dell’uomo la scienza sociobiologica si trova legittimata ad indagare anche quei comportamenti umani, che un tempo erano esclusivo appannaggio delle cosiddette scienze umane.
[12] Genotipo – è l’insieme dei geni, il programma organizzatore di quelle istruzioni incaricate di specificare le regole di tutti i processi autoproduttori, autoorganizzatori e autoriproduttori. Ogni operazione vivente comporta una determinazione genetica nel senso che non vi è nulla di vivente senza i geni.
Fenotipo – non è soltanto l’espressione del genotipo nell’essere fenomenico, ma porta su di sé il marchio dei vincoli e degli stimoli dell’ambiente. La semplice definizione di fenotipo, in relazione al genotipo, ci segnala che i tratti del genotipo sono virtuali, mentre quelli del fenotipo sono attuali. Il fenotipo è lo stato in cui l’esistenza vivente si afferma sul registro della individualità.
[13] Quando si parla di determinismo si fa riferimento a due posizioni che, nel corso della storia, per molto tempo si sono confrontate: l’una vede ogni prodotto dell’encefalo e quindi ogni espressione umana geneticamente determinata, l’altra vede tutto ciò che nasce come emergenza encefalica collegato all’azione di fattori ambientali e storici. Per questo si parla di riduzionismo genetico e riduzionismo sociale. Nel primo caso il centro focale dell’interesse è l’encefalo, nell’altro le dinamiche e i condizionamenti sociali.
[14] Il punto di riferimento di un modello cibernetico per la biologia, non è dunque il meccanismo, che regola l’organismo umano, ma quello dell’interazione tra encefalo ed ambiente. Entrambi i poli subiscono modificazioni e le producono. Il modello cibernetico può rappresentare il punto di partenza per una nuova metodologia, che possa fondere in modo scientifico uno studio sul comportamento etico.
[15] I cultur-geni, secondo Lumsdem, Wilson (1981), sono tratti di cultura; l’equivalente culturale dei geni. Per questi autori rappresentatono delle unità-base e vengono concepiti come un gruppo relativamente omogeneo di costruzioni mentali e di loro prodotti. Quindi la costruzione o l’uso di un certo tipo di manufatto può essere considerato un cultur-gene. La stessa procedura statistica per Lumsdem e Wilson (1981) può essere utilizzata per raggruppare altri tipi di comportamento e di processi mentali in cultur-geni. Da questo momento la cultura non è più subordinata a caratteri di tipo biologico; qui diventa essa stessa natura, assumendo in proprio l’onere di replicarsi e diffondersi.
[16] L’individuo è il risultato di una interazione tra l’innato e l’acquisito. E’ il programma genetico a stabilire i limiti dello sviluppo del sistema vivente. Su questo punto concorda anche Chomsky (1977): dal momento che l’innato ha un’ importanza fondamentale nel determinarsi delle strutture sintattiche, esiste un momento nello sviluppo dell’individuo oltre il quale l’apprendimento delle strutture diventa impossibile. Tali sistemi sono caratterizzati dalla capacità di adattamento all’ambiente. Ciò implica che negli organismi complessi l’adattamento dipenda, nelle linee generali, dal genotipo e, nei particolari, dal meccanismo di apprendimento: in altri termini, il genotipo cede all’ambiente una parte del comando che esercita sull’organismo. Un esempio che chiarisce il concetto appena esposto può fornirlo un esperimento condotto sui topi e riguardante la capacità di muoversi all’interno di un labirinto; quando l’esperimento venne condotto con topi allevati in un ambiente arricchito di gabbie e oggetti su cui arrampicarsi, la capacità di apprendimento degli stessi risultò essere migliore rispetto ad altri individui che non avevano avuto questa esperienza. Ciò non deve indurre a pensare che l’influenza del genotipo sia inconsistente e che il comportamento sviluppato sia determinato dall’ambiente. In un secondo esperimento, in cui i topi furono allevati in ambienti arricchiti, gli esemplari di un ceppo si rivelarono molto più veloci nell’apprendere rispetto a quelli di un altro, dimostrando che si trattava di una differenza genetica. Le differenze genetiche possono essere molto evidenti se due ceppi vengono fatti crescere nel medesimo ambiente, ma possono essere superate se ad alcuni individui viene dato un ambiente favorevole in cui crescere; questo esempio dimostra la complementarietà fra genotipo ed ambiente.
[17] Si è anche dimostrato che mantenere un neonato in un ambiente povero di stimoli induce una ridotta capacità intellettiva (limita cioè alcune funzioni encefaliche); viceversa l’ambiente arricchito in stimoli (fino ad un dato limite) favorisce tali funzioni. Pare dunque che l’encefalo, sia geneticamente programmato e meccanicamente realizzato con una struttura, che permette comunque delle modificazioni e quindi una certa plasticità, che è tale da rendere possibile una variabilità in funzione dell’ambiente, della realtà extrasomatica ed extragenetica.
[18] La stabilizzazione delle connessioni che risulta nel normale funzionamento del cervello è causata da un processo di selezione. Questo processo riguarda un meccanismo di feedback delle cellule postsianptiche. In uno sviluppo normale c’è una profusione di cellule presinaptiche, tutte potenzialmente in grado di connettersi con cellule postsinaptiche. Il meccanismo di feedback spazza via le connessioni in eccesso, che sono in stato labile. Questo è un meccanismo di selezione, la cui attività è analoga a quello dell’ambiente fisico della selezione naturale.
[19] La sinapsi può essere intesa, come afferma Andreoli (1984), la zona di contatto tra il mondo somatico e quello ambientale esterno all’uomo. Essa permette un movimento di interferenza reciproca in cui trovano spazio valori, creatività e libero arbitrio.
[20] E’ forse utile riassumere le tre ipotesi sulle quali abbiamo discusso a proposito del comportamento umano:
l’ipotesi genetica, sostenitrice di un comportamento innato: rivendica il fatto che ogni espressione comportamentale sia geneticamente determinata;
l’ipotesi extragenetica e/o storico-sociale: sostiene che ogni espressione comportamentale o parte di comportamento sia acquisita e quindi non geneticamente controllata;
l’ipotesi integrata o coevolutiva (centrata sul ruolo dell’encefalo):sostiene che la strutturazione dell’encefalo dipende dal codice genetico. L’organizzazione, idonea alle funzioni innate, rende però possibile, attraverso la plasticità encefalica, il comportamento acquisito.