Prefazione

Di Mauro Scardovelli

(Psicologo, Psicoterapeuta- DI.Sci.Pro.Co, Scienze dell'Educazione- Università di Genova)


Secondo la sociobiologia esiste una forte continuità evolutiva tra specie animali diverse. La continuintà non riguarda solo gli aspetti morfologici, bensì anche i comportamenti individuali e sociali. La specie umana è solo la parte finale di questa catena evolutiva.

L'estensione all'uomo dei modelli sociobiologici fa perdere a questi la sua presunta diversità qualitativa rispetto ad altre forme viventi. In questa prospettiva, l'agire umano, al pari di quello animale, è controllato dall'azione dei geni, e quindi non è qualitativamente diverso. Tratti comportamentali in precedenza considerati caratterizzanti in maniera esclusiva l'uomo, come la morale e il comportamento etico, si ritroverebbero con caratteristiche e pesi diversi in molte società animali.

Pertanto, odio, amore, altruismo, aggressività, lealtà, senso religioso, sarebbero interpretabili come moduli comportamentali radicati nel nostro corredo genetico, in conseguenza della selezione naturale.

L'approccio sociobiologico ha suscitato parecchie perplessità nella comunità scientifica. Contro tale prospettiva sono state rivolte accuse di determinismo biologico e di razzismo. I sociobiologi vengono accusati di aver arbitrariamente inventato geni del comportamento, a partire dalla semplice osservazione fenomenologica di unità comportamentali.

L'accusa più pesante, avanzata da alcuni biologi della sinistra radicale, è quella di aver riproposto in chiave moderna un vecchio modello di darwinismo sociale. Si teme, in sostanza, che la sociobiologia possa offrire una giustificazione teoretico-scientifica a ideologie di tipo reazionario e classista.

Esistono in effetti opere divulgative in cui si possono scorgere strumentalizzazioni a fini politici, in cui nazionalismo, razzismo e violenza interetnica sembrano trovare una giustificazione scientifica.

Ci sono autori che sostengono il carattere biogrammatico, genetico, delle leggi che governano anche il funzionamento dei sistemi politici. Il loro motore fondamentale, al di là delle dichiarazioni di principio contenute nelle carte costituzionali moderne, sarebbe il desiderio di ogni individuo, puramente egoistico, di far sopravvivere il proprio patrimonio genetico e di assicurarsi l'immortalità biologica. In questa prospettiva, la corsa al successo, al potere, al prestigio, in quanto aspetti della dominanza, non sarebbero da considerare aspetti narcisistici e patologici, socialmente dannosi, moralmente riprovevoli. Proprio al contrario: essi non sarebbero che la traduzione culturale di bisogni genetici. In altri termini: sani e naturali, socialmente utili.

Inoltre, l'affermazione secondo la quale un'organizzazione sociale, geneticamente determinata, rappresenti un prodotto della selezione naturale, veicola un presupposto assai pericoloso: l'idea che ogni società, così come è attualmente costituita, rappresenti l'optimum in quanto adattiva a quel particolare ambiente. Con buona pace di poveri, immigrati, emarginati. In fondo, nient'altro che una riedizione aggiornata, e scientificamente accreditata, della visione del filosofo Pangloss, nel Candide di Voltaire: questo è il migliore dei mondi possibile. Quindi: perché cercare di cambiarlo?

In questo libro, Pier Paolo Pracca, antropologo, psicologo e psicoterapeuta, affronta il tema del rapporto tra natura e cultura, ed in particolare del rapporto tra cultura e morale. Egli sottolinea, e dimostra, come gran parte delle questioni sopra indicate siano in realtà mal poste, dovute ad una visione di parte, o semplicemente questioni superate dalla sociobiologia contemporanea, nella quale non trova più spazio l'idea riduttiva di un determinismo genetico. Quella che emerge dalla lettura del libro è una visione equilibrata, che, rifuggendo da ogni forma di riduzionismo, e dando valore ai differenti contributi, promuove una concezione del rapporto eredità-ambiente sufficientemente complessa ed arricchita da poter costituire un utile strumento di riferimento per chi reazionario non è, e non ha rinunciato all'idea che il mondo possa essere cambiato in meglio.



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